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Nel 1960 ebbe un grande successo un filmetto della produzione Disney, dal titolo "Il segreto di Pollyanna", che racconta di un'orfanella costretta a vivere presso una severa zia in un paesino segnato dall'egoismo, dal risentimento e dalla reciproca inimicizia. Il segreto della ragazzina è la felicità: come essere e come rendere felici, usando moine, sorrisetti e buon umore.
Persino quando rimane paralizzata a causa di un incidente, Pollyanna continua ad irradiare ottimismo e buon umore.
Certo è difficile capire come la storiella mielosa di Pollyanna possa avere avuto un così vasto consenso di pubblico, se non considerando l'innato bisogno delle persone di credere nell'esistenza di una ricetta per la felicità.
Per contro, accanto al nostro inestinguibile bisogno di favola, occorre registrare un opposto e assai diffuso atteggiamento filosofico-esistenziale, vagamente cinico che tende a svalutare persino il desiderio di una ipotetica felicità, tacciandolo di egoismo, superficialità o sciocco infantilismo.
Un festival del nichilismo, tendente a trasformare in virtù la nostra incapacità di stare bene con noi stessi e gli altri. In poche parole, vorremmo essere felici e non riusciamo neppure ad essere sereni: non vogliamo ammettere che il fallimento dipende, in gran parte, dalle nostre incapacità.
Emblematico, in tal senso, "Happiness", ideologicamente lontano da Pollyanna ben più dei quaranta anni che separano le due pellicole, ma perfetto nella sua antitesi.
I personaggi di Happiness non sono affatto edificanti: una coppia di genitori estenuati da quarant'anni di finta armonia coniugale, tre figlie con storie tragiche e banali. Una di queste è sposata al peggiore psicoanalista della storia del cinema, pedofilo e innamorato degli amichetti del figlio.
Intorno a loro ruotano un piccolo popolo di onanisti coatti, molestatori telefonici, ladri, assassini; tutti invischiati in modo caparbio e fallimentare in quella ricerca della felicità che è considerata un diritto costituzionale da ogni bravo cittadino americano.
Il film è l'opera seconda dell'interessante Todd Solondz, sceneggiatore e regista cresciuto in quella provincia del New Jersey che ci descrive con tanta pacata efferatezza. La messa in scena è neutrale, con scene brevi e primi piani, spesso a macchina fissa.
L'autore non lascia trasparire alcuna considerazione soggettiva sui personaggi della storia, né di condanna, né di pietà, riportando in maniera cronachistica gli eventi e facendo avvenire gli episodi più crudi (bontà sua) fuori inquadratura.
In una sorta di Rohmer alla rovescia, assistiamo a drammi senza affetti, tragedie fredde e minimali, che si snodano in un horror da camera.
Il film appare disturbante e questo sembra essere l'intento di Solondz, egli ci induce il fondato sospetto che tutto quella miseria morale in fondo ci riguardi.
E in effetti ci riguarda l'ostinata pigrizia affettiva che si nasconde dietro le varie incapacità delle persone a non rimanere da sole, nei loro squallidi monolocali. Ci riguarda la perdita di un codice etico e morale che tende a far coincidere l'essere con l'apparire, il reale col virtuale. Soprattutto ci riguarda il più grande equivoco della nostra epoca: l'espressione della sessualità come affermazione della propria identità.
Il sesso, inteso come mero atto sessuale, è solo una fuga eccitatoria e non può essere lo strumento principe per la inutile ricerca della felicità terrena.
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Recensione a cura di maremare - aggiornata al 04/04/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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