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"Non crediate che io sono venuto a portare pace sulla terra.
Io non sono venuto a portare pace ma la spada".
Nel poemetto "Le ceneri di Gramsci", Pasolini pone l'accento sulla contraddizione con la quale viveva il proprio amore per la tradizione rispetto alla propria ideologia marxista. Una contraddizione tra "passione" e "ideologia" in cui il senso religioso del popolo si contrappone all'anelito rivoluzionario, all'ansia di riscatto sociale, in un profondo orrore per i tempi.
Il "Vangelo secondo Matteo" condensa questo ossimoro.
Dal "Vangelo" di Pasolini (a tutt'oggi la più alta rivisitazione cinematografica della vita di Gesù), fedele alla lettera del testo canonico, è espunta l'escatologia, e quasi totalmente è espunta la metafisica (se si eccettua la scena della resurrezione, che Pasolini ha mantenuto per non privare il testo del suo fondamentale aggancio di senso). Al cuore del film, in luogo della promessa teleologica, Pasolini ha posto il mistero e il senso del sacro, ovvero di ciò che è inattingibile alla ragione.
Il film si apre con una dedica alla "cara, lieta e familiare memoria" di Giovanni XXIII: Pasolini riconobbe il valore di un pontificato che, con il Concilio Vaticano II, tentò di introdurre istanze progressiste e uno spirito innovatore nella Chiesa.
Il volto di Cristo fu affidato, dopo molti indugi (Pasolini aveva inizialmente pensato addirittura a Jack Kerouac o Allen Ginsberg) a un non professionista, uno studente basco che si era recato da Pasolini con altri intenti. Enrique Irazoqui lo folgorò. Oltre ad avere tratti somatici tipicamente mediterranei, lontani dall'iconografia del Cristo biondo, Irazoqui, con il suo volto severo, si dimostrò capace di restituire un'immensa carica carismatica, anche grazie al favoloso doppiaggio di Enrico Maria Salerno – voce secca, intensa, perentoria.
L'immedesimazione del regista con Cristo è al centro dell'opera. Animato da una tensione insopprimibile verso un obiettivo di redenzione del male terreno, la sovrapposizione tra l'irriducibilità di Pasolini a qualunque canone (compreso quello del marxismo), e la novità che Cristo scandalosamente rappresentò ai suoi contemporanei (e il cui messaggio non cessa di rappresentare, universalmente), è straniante e vertiginosa.
"Velata dalla stessa angoscia irruenta e non violenta di quella di Cristo, dolorosa e incomunicabile" (S. Murri), l'immedesimazione è rimarcata dall'aver affidato il ruolo della Madonna adulta alla propria madre, Susanna Pasolini, che piange di fronte al proprio figlio crocefisso.
A questa identificazione sotterranea e appassionata il film deve la sua potenza.
Lo stile è brusco, violento: più appare scabro e ruvido, più risulta intenso ed essenziale, in grado di abolire ogni retorica dalla solennità. Primi piani ripresi con il grandangolo si alternano a campi lunghissimi. I primi piani "parlano", sempre prima e anche senza che i personaggi profferiscano parola: un effetto amplificato dalla prevalente assenza di inquadrature d'insieme degli ambienti in cui i primi piani sono collocati (nella sintassi cinematografica classica, i primi piani sono preceduti da inquadrature d'insieme, che fungono d'ausilio per lo spettatore al fine di conoscere l'ambiente che ospita la scena).
In Pasolini, il passaggio da una sequenza all'altra con stacco sui primi piani, crea un effetto di straniamento che amplifica la forza iconica dei volti, e abbandona lo spettatore alla contemplazione pura.
All'uso reiterato e ieratico dei primi piani si sovrappone l'effetto donato dalla camera a mano, che conferisce al film una continua vibrazione, quasi palpitante: sono le due scelte che più di tutto contribuiscono a creare l'atmosfera ruvida, nervosa ed intensa del film.
Le musiche si caratterizzano per l'ecletticità, l'uso libero di fonti disparate. Si va da Mozart e Bach a Prokofiev e Webern, passando per i canti russi della rivoluzione, una messa congolese e lo spiritual "Motherless child": "un groviglio di suggestioni che gli viene certo dalla ‘nouvelle vague', ma ch'egli maneggia con la folle levità dei toccati dalla grazia" (F. Di Giammatteo).
Nel film ad ogni modo domina il silenzio: una commistione di rumori di fondo, un orizzonte sonoro che non necessita di parole, e che diverrà una cifra stilistica fondamentale del cinema di Pasolini.
"Il Vangelo secondo Matteo" è un'iconografia degli umili. La glorificazione degli umili, veicolata dall'espressività dei primi piani, rappresenta il denominatore comune dei nuclei tematici dell'opera: la condanna della ricchezza materiale, quella del potere, e l'esaltazione dell'innocenza.
La condanna della ricchezza materiale
"Ecco qui ad attestare il seme
non ancora disperso dell'antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominio."
Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci
Mentre Giovanni Battista battezza vediamo, in uno dei frequenti campi lunghi che costellano il film (e che fanno da contrappunto ai primi o primissimi piani) procedere in alto, sopra di lui, in mezzo a una folla di umili, alcuni signori che, per abbigliamento, si distinguono come appartenenti a una classe sociale benestante.
Torniamo quindi sul primo piano del Battista, che predica urlando: lo sguardo alzato sembra rivolto a quel gruppo di persone. "Razza di vipere!". La macchina da presa torna a loro, stavolta in piano medio: si guardano, muti paiono chiedersi "cosa vuole da noi costui? Sta passando il segno". Senza esserlo esplicitamente, si sentono chiamati in causa.
Quindi Pasolini torna sull'esasperato primo piano del Battista che grida: "Chi verrà dopo di me monderà interamente il suo campo: raccoglierà il grano suo nel granaio, ma, la pula, la brucerà in un fuoco inestinguibile!". L'enfasi è posta sulle parole "pula" e "inestinguibile": su quest'ultima, in un passaggio di consegne a "chi verrà dopo di lui", una dissolvenza incrociata tra due primi piani ci viene a mostrare, per la prima volta nel film, il volto severo e sereno di Cristo adulto.
Tutta la costruzione della sequenza, come si vede, conferisce alle parole del Battista, alla sua ira (e a quella, evocata, di Cristo), una notevole valenza politica. E' una promessa di giustizia sociale che riscalda gli animi, nella quale Pasolini non distingue la promessa di una giustizia divina "nel regno dei cieli" (come proposta dal cristianesimo) dalla promessa di un riscatto sociale temporale. Nella sequenza è contenuta una promessa, una speranza: l'invocazione di giustizia ed equità è un vento teso. Qualcosa in cui credere, una speranza che conforta, anche se la sua realizzazione potrebbe non essere di questo mondo: potrebbe essere – temporalmente – un'utopia.
Verso metà pellicola, Pasolini colloca l'episodio del giovane ricco: ben vestito e dal volto pulito, con saccenza chiede a Gesù cosa fare per ottenere la vita eterna. All'elenco dei principali comandamenti, il giovane replica di averli tutti osservati: "che mi manca ancora?". Pasolini sottolinea il sotterraneo senso di colpa del ricco, la sua sensazione di non trovarsi nella condizione idonea a "passare un esame" (nessuno dei personaggi umili è sfiorato dall'ardire quasi di pretendere una patente di vita eterna).
Una rapida e inquieta panoramica da destra a sinistra sui volti degli astanti sottolinea la trepidazione di tutti, in attesa della risposta di Gesù. "Se vuoi essere perfetto va', vendi quello che hai e donalo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo". Il giovane deluso abbassa lo sguardo. Non può accettare l'alternativa. Si allontana. Gesù prosegue con la celebre massima evangelica "in verità vi dico che è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno dei cieli".
L'ambizione di ottenere "la vita eterna" sembra una pretesa figlia, anch'essa come l'avidità, di quell'ansia di possesso che Pasolini individua e condanna nella borghesia (e in sé borghese). Vien data valenza socio-economica all'attaccamento al possesso materiale, che nei Vangeli rappresenta l'antitesi della ricchezza spirituale (eterna quest'ultima anche perché, a differenza dei beni materiali, non deperisce nel tempo).
La condanna del potere
"Guai a voi, guide cieche!
All'esterno apparite giusti agli occhi degli uomini,
ma dentro siete colmi di ipocrisia e di iniquità"
Gesù è entrato da poco in Gerusalemme; una folla in festa lo ha accolto. La prima cosa che scribi e farisei gli contestano, è da chi proverrebbe l'autorità con cui egli compie le sue opere. Gesù non cade nella provocazione. Un gruppo di bambini è corso a sedersi di fronte a lui, e si frappone fra lui e gli scribi. I bambini si voltano contenti, alle parole con cui egli serenamente respinge la polemica.
Ma Gesù passa al contrattacco: lo fa con il suo strumento prediletto, la parabola. E' il turno di quella dei vignaiuoli, cui il padrone ha affidato la cura della vigna, e che non la vogliono più cedere, e arrivano anche ad ucciderne il figlio pretendendo di sostituirsi all'eredità del padrone. Quella che è una trasparente metafora del rapporto tra Dio, i ministri del culto, e il figlio di Dio, assume nel film di Pasolini i toni quasi di una profezia sul potere, che sarà tolto a coloro i quali, senza averne diritto, se lo sono arrogati.
L'episodio è seguito da alcune prediche, che hanno per tema l'esortazione a non fare quello che scribi e farisei fanno: discorsi incentrati sul ridimensionamento dell'autorità di chi detiene il potere e se ne è fatto dimora. "Chiunque s'innalza sarà umiliato, e chi si umilia sarà innalzato". "Guai a voi, guide cieche!, che trascurate le cose più importanti: la giustizia, la misericordia, la sincerità".
"Guide cieche, che filtrate il moscerino e inghiottite il cammello, assomigliate a sepolcri imbiancati: i quali fuori appaiono splendidi, e dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni immondezza".
Pasolini non fa che citare testualmente il Vangelo di Matteo, per offrirci suggestioni sull'arroganza di chi si cela dietro le apparenze e si fa schermo delle posizioni acquisite. Pasolini oppone ad esse valori quali la giustizia (invece dell'iniquità), la misericordia (invece della condanna), la sincerità (anziché l'ipocrisia).
La sequenza è messa in scena con il Cristo quasi sempre in campo lungo, in mezzo a una folla. Colpisce soprattutto un suo primo piano di nuca, in cui il movimento del capo scopre a più riprese il suo profilo: il regista ne potenzia l'autorevolezza e il carisma facendo vibrare quasi magneticamente l'attenzione e l'attesa per quel volto che a tratti si svela.
Le parole di Cristo sono una sfida aperta. Quando finisce di predicare, è risucchiato tra la folla, e a voce più calma suggerisce di guardare i luoghi attorno: "qui non sarà lasciata pietra su pietra che non sia sconvolta". Scoperto è l'intento rivoluzionario, implicito nel Vangelo. Non consideriamo soltanto l'accezione meramente politica del termine "rivoluzione", che sicuramente è Pasolini ad aggiungervi (velatamente, ma decisamente). La reazione non si fa attendere: nella sequenza immediatamente successiva scribi e farisei sono radunati per decretare che è giunta l'ora di prendere Gesù per farlo morire. La sequenza ha luogo su di una piazza deserta di folla: laddove quella precedente vedeva una ricca folla dislocata per vie e slarghi non monumentali, sul fondo di questa piazza si staglia invece la facciata di una chiesa romanica, simbolo materiale delle istituzioni che si sentono minacciate.
Fa da correlativo oggettivo, infine, la riproposizione da parte di Pasolini (in un montaggio "ejzensteiniano") dell'inquadratura di un fico che Gesù aveva appena seccato, non potendo la pianta dare frutto. Quel fico sono naturalmente i potenti che stanno adoperando la loro autorità a fini perversi.
Più avanti, nelle sequenze conclusive dedicate alla passione di Cristo, una straordinaria invenzione visiva chiarirà in modo definitivo la posizione in cui Pasolini vuole collocarci. Nella scena del sinedrio, poi in quella di fronte a Pilato, la macchina da presa segue gli eventi con la soggettiva mossa dalla camera a mano, in mezzo alla folla lontana dal centro degli eventi, che cerca di scorgerli facendosi spazio tra nuca e nuca. Il sonoro è lontano, si fa quasi fatica a percepirlo: siamo a fatica testimoni, insieme al popolo, dei momenti salienti della Storia: quelli in cui il popolo è vittima delle manovre dei potenti. Ad essi, i potenti, viene sottratta la dignità, e il prestigio, che deriverebbero da una rappresentazione scenica convenzionale.
Sarebbero due piani-sequenza, se non fossero formalmente entrambi contrappuntati da alcuni brevi e intensi controcampi sui primi piani, e sul dettaglio ravvicinato degli occhi, di due discepoli che osservano la scena: prima Pietro (che di lì a poco rinnegherà tre volte il suo maestro), poi Giovanni.
L'innocenza degli umili
"Non impedite che i bambini vengano a me
perché il regno dei cieli è per coloro che ad essi somigliano"
Veniamo qui ad uno dei topos principali della poetica di Pasolini: l'innocenza perduta del popolo. L'intera opera di Pasolini (poeta, scrittore, saggista e regista; intellettuale a 360 gradi) è imprescindibile (e attualissima) per come ha fotografato, e in parte anticipato, i segni di quella da lui definita "mutazione antropologica" del popolo italiano.
Al cuore della poetica di Pasolini risiede la preoccupazione per le modalità con cui l'avvento della società dei consumi stesse deturpando l'anima del popolo. Quella che vedeva sgretolarsi sotto i suoi occhi era l'innocenza millenaria dei ceti più umili, tanto connessa allo spirito rurale, contadino e verace delle "pievi appenniniche" ("Io sono una forza del passato"...). Pasolini ha scorto con una lucidità lungimirante e acutissima i segni della futura cosiddetta "globalizzazione", e ha sofferto per la progressiva estinzione, che vedeva realizzarsi sotto i propri occhi, di un mondo che egli aveva amato diverso da quello che i tempi stavano trasformando, e la cui innocenza – nella sua poesia – stavano deturpando.
Le sue prime raccolte poetiche, i suoi romanzi (si pensi anche al meno noto "Il sogno di una cosa"), i suoi primi film, da "Accattone" al "Vangelo" di cui qui si tratta, vedono ancora protagonisti gli umili che egli tanto amava Poi egli – disgustato dall'orrore che vedeva spandersi a macchia d'olio attorno a sé – preferirà volgere lo sguardo altrove: e sarà allora la tragedia greca ambientata nel terzo mondo ("Edipo re", "Medea", "Appunti per un'Orestiade africana"), lo sguardo attento per quel terzo mondo in cui vedeva ancora vivo, al contrario che in occidente, quello spirito popolare autentico e inconsapevole, non deturpato dalla modernità. Dislocazioni spaziali e temporali: "Il Decameron" e "Il fiore delle mille e una notte" saranno vie di fuga dall'orrore del presente (orrore che poi tornerà simbolicamente trasfigurato nella tremenda allegoria di "Salò").
Nel panorama dell'opera di Pasolini, "Il Vangelo secondo Matteo" assume una posizione centrale: rappresenta il punto più alto della prima fase, più serena, del suo cinema, prima che il poeta si sentisse definitivamente sradicato dalla società, sempre più mutata in peggio attorno a lui. L'apertura ideale e utopica, la speranza di cui è pregno il suo "Vangelo" non torneranno più. Sono il canto del cigno e il disperato canto d'amore di un poeta per un'umanità che sta scomparendo: quella scolpita, in quest'opera, nei volti senza tempo, umili e colmi di dignità, delle popolazioni della Basilicata, della Sicilia, della Puglia, del Lazio, della Campania. Il "Vangelo secondo Matteo" è anche un documento, e un inno, a un'Italia che stava per scomparire.
Il concetto di innocenza è inteso da Pasolini in un'accezione molto particolare, lontana dall'essere antitesi del concetto religioso di peccato. Ad esempio, non c'è peccato nel sesso: anzi il desiderio sessuale – quanto più "animalesco", incosciente, libero da sovrastrutture – è, in Pasolini, un indice di purezza e innocenza (e lo vorrà dimostare con la successiva "trilogia della vita", in esplicita polemica con la presunta innocenza della liberazione dei costumi sessuali, incipiente alla fine degli anni '60).
Nel "Vangelo secondo Matteo" non si parla di sessualità: il tema dell'innocenza è scolpito in quest'opera nei moltissimi primi piani di volti del popolo (segnati dal tempo, dalla fatica, dalla vita). Sdentati, rugosi, austeri, ricordano la stessa sensibilità verso gli umili che si ritrova nel primo periodo (quello olandese) della pittura di Van Gogh. Sono primi piani prolungati e silenziosi, che assistono. A Pasolini è sufficiente l'accumulo di questi primi piani per caricare di senso la fissità degli sguardi di queste comparse, farla arrivare a esprimere l'attenzione di chi non si arroga alcuna presunzione di capire in base a schemi preconcetti, ma assiste con intensa partecipazione, si aspetta di apprendere dall'osservazione degli eventi.
Il tema dell'innocenza pervade il film a partire dalla maternità della madre di Cristo, e lo percorre soprattutto attraverso i molti momenti in cui, a rubare la scena, sono i bambini.
Più avanti, Pasolini si sofferma sulla perversione dell'innocenza, in una delle sequenze forse più affascinanti di tutto il suo cinema: quella di Salomé.
Procediamo con ordine.
Maria è protagonista della prima parte del film, che si apre proprio sul suo primo piano. I lineamenti delicati e bellissimi, lo sguardo intensissimo e austero della non professionista Margherita Caruso sono espressione magnifica della purezza: la purezza di un'innocenza archetipica, e del sentimento materno. Pasolini ha reso a meraviglia i caratteri tradizionali dell'iconografia della Madonna.
L'intensità del suo sguardo, tacito di fronte ai Magi, racchiude la consapevolezza felice di una madre, partecipe di un mistero. La maternità stessa è un mistero per chi non lo prova: basta questo, senza alcun cenno alla verginità e alla divina concezione, per esprimere la sovrana potenza di quel sentimento dove origina la vita. Un mistero che non le può essere indagato, uno stato di grazia che – a differenza del corpicino del figlio – non può essere toccato, non può essere violato (lei lo sente, e ne è orgogliosa). Quel mistero, quella grazia, appartengono alla dimensione esclusiva del rapporto che lega una madre alla propria creatura.
Giuseppe non pronuncia mai una parola: in lui è racchiuso il punto di vista del puro sguardo, di colui che assiste.
I bambini rappresentano l'innocenza archetipica dell'essere umano. Poeticamente, nell'infanzia è racchiusa l'età dell'oro che ciascun adulto ha smarrito: essa rappresenta lo specchio di un'idealizzata innocenza. Questo esprimono i bambini del "Vangelo" di Pasolini.
Il film è costellato di bambini.
Se ne vede un gruppo all'inizio, sul luogo dove compare l'angelo che parla a Giuseppe, tranquillizzandolo sulla maternità di Maria.
La visita dei Magi è raccontata attraverso i volti di numerosi bambini sorridenti, quasi a una festa.
Anche la partenza per l'Egitto avviene sotto lo sguardo dei bambini.
Gesù in Egitto è un sorridente bimbo di un paio d'anni che viene incontro alla macchina da presa sulle proprie gambe, staccandosi da un gruppo di bimbi (controcampo: Giuseppe, che ha appena saputo che possono tornare, gli tende le braccia e lo solleva in alto nel cielo, mentre la madre osserva la scena).
Le predicazioni di Gesù adulto sono contrappuntate da immagini di bambini che giocano in gruppo.
Mentre vengono pronunciate le parole "è più facile per un cammello...", Pasolini mostra il primo piano di un bambino che ascolta attento.
La sequenza di Salomé, una ragazzina che chiede la testa del Battista, è preceduta da quella incentrata esplicitamente sui bambini che accorrono a Gesù e che i discepoli vorrebbero fermare. Gesù intima loro di non impedire che vengano a lui, "perché il regno dei cieli è per coloro che ad essi somigliano".
Una delle ultime scene prima dell'ingresso in Gerusalemme è ancora dedicata ai bambini: in essa vediamo l'attore Ninetto Davoli giocare con un bambino, e Cristo replicare il concetto per cui "chi saprà farsi piccolo come un bambino, è il più grande nel regno dei cieli" (esortazione rivoluzionaria; condita di grande dolcezza, in realtà è durissima da mettere in pratica).
L'ingresso in Gerusalemme vede anche una piccola folla di bimbi osannare Gesù con tanti ramoscelli d'ulivo. Ed è l'unica scena in cui vediamo sul volto di Gesù un lieto sorriso schiudersi in una risata davvero felice.
Quando gli scribi e i farisei interrogano Gesù, egli è contornato da bambini che gli si sono andati a sedere attorno, come attenti scolaretti di fronte a un amato maestro.
Il tema dell'innocenza è messo in stridente contrapposizione a quello dell'autorità nelle sequenze della strage degli innocenti seguita dalla morte di Erode. Nella prima sequenza, quella della strage, l'atrocità è evocata, sottolineata dalla tecnica di ripresa più che da immagini esplicite. Campi lunghi su un declivio, panoramiche veloci e trafelate, ora verso destra, ora verso sinistra; zoomate; la musica drammatica ad amplificare la tragedia.
Immediatamente dopo, Pasolini ci mostra la morte di Erode (a fare da giuntura, una voce over, la sola del film senza soggetto, chiude la sequenza della strage declamando: "Rachele piange i figli suoi, e non vuole essere consolata, perché non sono più!").
L'intenzione di contrapporre, alla tragedia scatenata dal potere contro l'innocenza, l'esibizione della vanità del potere medesimo (nel momento in cui si volatilizza con la morte), è sottolineata, oltre che dalla semplice giustapposizione delle due sequenze, dal cambio di registro stilistico. Per la strage infatti Pasolini ha scelto una messa in scena concitata e drammatica: ora invece sceglie uno sguardo glacialmente distante.
Apparentemente neutro, lo sguardo così diverso rispetto alla partecipazione accorata alla strage amplifica il senso di distacco e di biasimo verso Erode. La morte di un re che ha fatto assassinare dei bambini per timore di perdere il proprio potere, è filmata con lente panoramiche, in un silenzio quasi assoluto. La sua agonia è atroce perché nessuno gli è vicino a consolarlo: i presenti, tanti (la sua corte), sono tutti immobili, seduti ai margini, in attesa che sopraggiunga la morte.
Non è così che si attende la morte di un tiranno?
Non c'è alcuna pietà nemmeno nel volto dell'anziana che va a serrare con un panno le mascelle del re, una volta defunto.
C'è un'altra giustapposizione particolarmente significativa di due sequenze indipendenti tra loro. Subito dopo quella in cui Gesù chiede che i bambini siano lasciati venire a lui, Pasolini ci mostra l'episodio in cui Salomé, figlia del secondo Erode, prima danza a un banchetto e quindi chiede al padre, che gli ha appena promesso ciò che vuole, la testa del Battista su di un piatto.
La giustapposizione è significativa perché la Salomé di Pasolini è particolarmente giovane: è ancora una bambina. Pasolini pone l'accento sulla perversione dell'innocenza da parte della ricchezza, del vizio, del permissivismo immorale. Salomé è inquadrata una prima volta come una bambina solitaria, entro le mura protettive di un cortile nobile. Mentre sinora tutti i bambini del film erano visti all'aria aperta giocare in gruppo, ella gioca da sola un po'annoiata.
La madre le fa dono di una ricca veste. La vizia. Lo sguardo della genitrice prima tradisce un aristocratico orgoglio verso la propria figlia, poi scorge qualcosa nella ragazzina. Qualcosa che non le piace: il sorriso di madre si spegne. Ma poi, subito, compiace la figlia con un bacio sulle labbra, a suggellare un'ambigua complicità.
La musica di Bacalov su cui Salomé danza, è una melodia dal sapore medievale, bucolico ed etereo: la sua dolcezza amplifica l'ambiguità. Massimamente ambiguo è poi lo sguardo del padre Erode: volitivo, esso sottende un'ombra di pedofilia incestuosa.
La somma di queste ambiguità alludono a un misfatto compiuto nella complicità familiare, una famiglia in cui tutto è permesso dal potere. Una ragazzina può chiedere che un uomo venga decapitato e il padre può concederglielo: la richiesta di Salomé è una sfida generazionale, un ricatto al padre: "tu che mi porti in palmo di mano e stravedi per me, non hai il potere di rifiutarmi niente".
In questo ritratto così sottile e potente della perversione dell'innocenza, e dell'ambiguità con cui il male vuole apparire innocente, Pasolini ci consegna una vertiginosa allusione alle smanie con cui le giovani generazioni cercano di svincolarsi dalla moralità, nella compiacenza dei padri, che insieme al benessere hanno colpevolmente concesso l'illusione dell'impunità.
Un'allusione più che mai attuale.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 21/02/2011 11.05.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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