Recensione incontrerai l'uomo dei tuoi sogni regia di Woody Allen USA, Spagna 2010
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Recensione incontrerai l'uomo dei tuoi sogni (2010)

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locandina del film INCONTRERAI L'UOMO DEI TUOI SOGNI

Immagine tratta dal film INCONTRERAI L'UOMO DEI TUOI SOGNI

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L'errore maggiore che si può commettere nei confronti di un film di Woody Allen è giudicarlo un film di Woody Allen. La frase che più spesso sentiamo infatti all'uscita dai cinema o nelle recensioni è "sicuramente non è dei suoi migliori", che, adattato, potrebbe suonare come un "niente di nuovo sotto il sole". La riflessione personalissima che ne segue è: "Necessario che un commediografo inserisca l'originalità contenutistica e stilistica, nonché narratologica tra le priorità della sua produzione?". Guardandosi indietro infatti, non sembra che commediografi come Plauto o Goldoni o lo stesso Shakespeare avessero come obiettivo precipuo di sorprendere lo spettatore/lettore con l'abbondanza di sempre nuove soluzioni narrative. La Commedia è un genere che ha a che fare con il divertimento (incerta ancora adesso è l'etimologia) e, come è noto, si ride sempre delle stesse cose, ovvero di noi. Giudicare un film di Allen, a partire da Allen e non a partire da quella che è pur sempre una buona commedia umana, pare una presa di posizione che impoverisce l'esperienza di una fruizione più libera, meno intellettualistica e radicale. Meglio è giudicare un'ora e mezza di puro teatro, piuttosto che perdersi in inutili rimpianti di "Manhattan" e rovinarsi un film assolutamente consigliato.

Seguirà la sinossi del film, per chi non lo avesse ancora guardato.

Ci troviamo di fronte allo schema classico di una commedia di matrimoni e tradimenti. Il soggetto ruota intorno a due coppie coniugate: Alfie (Anthony Hopkins) e Helena (Gemma Jones), Sally (figlia dei due, interpretata da Naomi Watts) e Roy (Josh Brolin). Alfie, spaventato all'idea di invecchiare, lascia sua moglie e, in cerca di avventure giovanilistiche e adrenaliniche, finisce con lo sposare Charmaine, spacciata come attrice, ma a conti fatti cortigiana. Helena, depressa per la fine improvvisa di quarant'anni di matrimonio, tenta invano il suicido. In seguito si affiderà a una cartomante (su consiglio di Sally), Crystal (Pauline Collins), nella quale riporrà sempre la massima fiducia. Sally, madre e artista mancata, e Roy, romanziere nel bel mezzo del classico "blocco", sono una coppia triste e frustrata per problemi economici ed esistenziali. Le due coppie sono annunciatamente destinate a disgregarsi: Roy, dopo aver coltivato un rapporto vojeuristico con la bellissima dirimpettaia Dia (Freida Pinto), finirà con l'innamorarsene e abbandonare la moglie; altrettanto farà Dia, con l'illusione di avere accanto un geniale scrittore. L'occasione infatti di sbloccare la sua situazione disastrosa (in realtà Roy è solamente un fenomeno letterario più unico, che confermato), ruberà a un amico, creduto morto in un incidente, ma solo in coma, il suo romanzo, di ben più alta caratura artistica. Il romanzo è già un successo editoriale quando Roy scopre il terribile fraintendimento, quindi non può che sperare nella morte dell'amico, ma questo non ci è dato di sapere. Nel frattempo anche Sally si è data da fare, anche se, a differenza del(l')(ex-)marito, non riuscirà a conquistare quello "sconosciuto alto e bruno", identificato nella figura del suo affascinante datore di lavoro, il gallerista Greg Clemente (Antonio Banderas). Su stesso consiglio di Sally, Greg conoscerà la talentuosa e sensuale Iris (Anna Friel), con la quale inizierà una storia. Sally, delusa dall'esperienza fallimentare (in realtà mai cominciata) con Greg e fiduciosa nella prospettiva di una galleria d'arte propria, ottiene dalla madre la promessa di un prestito ingente e si licenzia dal suo impiego di assistente. Helena tuttavia non terrà fede alla promessa, dietro ammonimento della cartomante. Nel frattempo Alfie, resosi conto della costosa incompatibilità con Charmaine e dei suoi ripetuti tradimenti, torna da Helena, la quale però è già invaghita di Jonathan (Roger Ashton-Griffiths), vedovo spiritualista e convinto della possibilità di rimettersi in contatto con la moglie defunta. Alfie non solo riceve il rifiuto di Helena, ma anche la notizia che Charmaine è incinta. Della paternità del bambino ancora non ci è dato di sapere.

Più difficile a dirsi che a vedersi, la trama rispecchia in nuce la realtà contenutistica di questo film, che vede ripetersi quei concetti (in parte espunti dalle letture personali del regista, in parte dovuti alla sua visione della vita) che già avevamo conosciuto in un'opera recente e di successo quale "Basta che funzioni". L'anaforica frequenza con cui Allen produce queste commedie rivela varie ossessioni di un anziano regista, che per nulla ha perduto la sua verve ironica, ma che sembra orientarsi sempre più spesso verso una tipologia di commedia stilisticamente raffinata e filosoficamente meditativa, arricchita di una cultura personale e di una visione interiore che, a parere di chi scrive, non sono in alcun modo da sottovalutare.

Shakespeare diceva: "la vita è furore e rumore, e invece non significa nulla". Questa è la frase d'apertura di un'immancabile voce narrante (in "Whatever Works" è lo stesso protagonista che racconta), che si pone a filosofico commentatore di tutta la vicenda.

La scena si apre con l'incontro tra Helena e Crystal, un personaggio che accompagnerà tutto lo svolgimento, e che non a caso verrà presentato fisicamente solo all'inizio.
Crystal è un deus ex-machina, un aiutante, un "fantasma", un concetto che parlerà con le sembianze di Helena, la quale, priva di ogni certezza, si affiderà alla sicurezza delle "illusioni" (parola che ricorrerà per tutta la durata del film).
Questo, che "comedicamente" è molto consueto e neppure troppo originale, umanamente si rivela di una tristezza abissale. Helena è il personaggio verso cui lo spettatore è più portato a simpatizzare (nel senso greco del termine), perché risulta in fin dei conti quello più forte. Ciò si conferma sul finale aperto, ma come di consueto stranamente ottimistico, in cui solo le cose di Helena (e di Jonathan) cominciano a "funzionare".

Il personaggio di Helena è giustificato nel suo totale affidamento, pericolosamente spersonalizzato, a un oltremondo falso e di bassa qualità, a una accecante teoria delle illusioni: "illusione" rimanda alla radice del "gioco" (vd. lat. ludo), ma significa anche "ironia", un'ironia (dal greco eironeia, ovvero "dissimulazione, finzione") che permette a questo nevrotico e sofferente personaggio di sormontare l'immane peso di una vita improvvisamente insensata.
Come è possibile sconfiggere la sofferenza di una rottura tanto drammatica con la lieve arma dell'ironia? In realtà l'atteggiamento di Helena è coerente: ciò che le è successo è frutto di un monumentale rovesciamento di senso, dell'imbarazzante presa di coscienza del marito, che le rovescia il suo orizzonte di valori. Helena è già sconfitta, ma prende la vita con ironia (a lei sono dedicate tra l'altro le battute più salaci e divertenti del film), ossia comincia a vivere la vita di un'altra persona, quella che Crystal le impone di vivere: Helena simbolicamente è morta con il suo tentato suicidio, perché è un personaggio che non ha senso al di fuori del suo lunghissimo matrimonio, unico valore in cui crede.

In seguito al "disincantamento" di Alfie, Helena invece approda a un ulteriore fase di incantamento, che è il mondo illusorio inventato per lei da Crystal, ciarlatana, ma non sgradevole. Che Helena ci creda o no, non influisce sull'effettivo incontro con Jonathan (vaghi ricordi sveviani di una seduta spiritica...), ma influisce sul suo modo di vivere la vita, una vita che, come diceva Heidegger, è aperta alla comprensione dell'Essere in quanto possibilità.

Ciò che angoscia questi personaggi, in particolare Alfie, è la paura di invecchiare, a loro dire. Quello che piuttosto sembra è l'angosciarsi per ciò che è un problema della vecchiaia, ma non è la vecchiaia in sé: sono aperto anche da vecchio all'essere in quanto possibilità? L'atteggiamento che ne deriva è ora chiaro: Alfie capisce di essere vecchio, ma non riesce a vivere in quest'età, quindi cerca di ringiovanirsi per poter vivere un'altra possibilità. E così fanno tutti gli altri personaggi, salvo Helena, che più che accettare la vecchiaia, forse finge di non esserci dentro. A differenza degli altri però, non forza il cammino naturale dell'età, ossia pratica ciò che Seneca chiamava il "vivere secondo natura". Un vivere che significa non forzare né anticipando, né posticipando il giusto momento per ogni cosa.

Questi personaggi sono accomunati dalla loro inadeguatezza alla vita, dal loro tentativo di vivere vite non adatte ai momenti in cui trascorre la loro mera esistenza. Non è  importante la modalità con cui si dà un senso a questa vita, che forse è "molto rumore per nulla", ma l'importante è non forzarne tempi e dinamiche, imprigionati nel passato e quindi fuori dalla nostra portata.
Ciò che stupisce è la senilità di tali personaggi, la paralisi di queste figure incartapecorite dal continuo e tormentato desiderare l'altro, ma non desiderare se stessi. Per i padri sembra la dolorosa impossibilità di accettare un'esistenza sempre più lenta (Seneca poneva come disgrazia più grande della vecchiaia, il suo effetto rallentante) e disimpegnata, quindi aperta alla contemplazione sconsolata di una realtà vuota e avvilente. Per i figli sembra il triste e soffocante retaggio dei padri (si veda la durezza del padre di Dia, e di contro il silenzio sui genitori di Roy, nonché la citata vicenda di Alfie e Helena) che non hanno permesso che le ali dei giovani fossero ben forti e vigorose, per spiccare un volo sicuro e autonomo; non è infatti un caso che Allen citi gli "Spettri" di Ibsen (un altro autore significativo), appunto l'espressione tenebrosa e angosciante di una discendenza paralizzata dal peso della tradizione.

Ma arriviamo ai figli.
In tutto e per tutta la parte più giovane del "dramatis personae" di questa commedia è sicuramente la parte più incapace e irrealizzata. Se qualche cosa Helena e Alfie hanno costruito nei loro quarant'anni di matrimonio (e così le altre coppie anziane, i genitori di Dia e del suo fidanzato), desolante è il vuoto di quello tra Sally e Roy.

Sally cerca il figlio come lo cerca suo padre, ossessivamente e disperatamente. Cercano l'altro come temporanea realizzazione del Sé, e cercano il figlio come completamento di questa vita irrealizzata e come conferma di una visione di essa finalizzata all'utile, al prodotto. Non è un caso che non esistano bambini in questo film e che soprattutto non esistano figli. Indimenticabile la sequenza in cui Charmaine annuncia lo stato interessante: l'ossessione di Alfie non è quella di un figlio in carne e ossa, ma di un figlio proprio, una creatura che gli infonda una giovinezza (l'età della possibilità), ormai sfuggita. Lo stesso vale per Sally, che come Elettra, subisce la sorte di suo padre Edipo: "Ho bisogno di fare un figlio", dice in una scena paradossale. Sally non riesce a significare la propria vita, perché ragiona in un orizzonte di senso in cui la vita è tale in quanto realizzazione, ma Allen riserva a lei la sorte peggiore. Infatti da artista fallisce, da madre fallisce, da moglie fallisce, ma anche da amante non riesce a combinare nulla.

La disaffezione con cui tratta sua madre fa da pena di contrappasso per Sally, che si ritrova sconfitta da quel mondo illusorio che aveva aspramente criticato, ma nel quale aveva abbandonato la madre, dopo il suicidio, fuggendo la responsabilità della Cura.
Sally, nell'ottusità del suo mondo infelice e irrealizzato, non fa che scavarsi la tomba, e all'ultimo colpo di vanga si rende conto della sua situazione, irreversibilmente compromessa: con espliciti riferimenti (con un tocco di leggera parodia) al "Sinfonia d'Autunno" bergmaniano, Allen costruisce l'ultimo alterco fra figlia e madre dove, all'ammasso di improperi dell'una, risponde la parossistica litania dell'altra, non più persona, ma personaggio. "Crystal dice che"...

Roy vive di una sorta di statuto speciale per la quasi totalità del film, forse ricavato dalla sua figura di scrittore, un giullare dell'arte che potrebbe da un momento all'altro riscattarsi con il romanzo perfetto.
Parodicamente questo succede in quella che forse è la soluzione più azzeccata del film. Ciò che è interessante di Roy, al di là della sua sconvolgente banalità, è il nostro simpatizzare con lui.
Al di là dell'ottima performance di Brolin, Roy è un personaggio simpatico e interessante, da cui ci aspettiamo per tutto il film il riscatto e non ci disturba la soluzione (a suo modo geniale) con cui pone fine ai suoi problemi letterari ed editoriali. Incoraggiamo addirittura la sua relazione con la dolce, quanto stolida Dia, forse il personaggio più odioso della commedia. Da lei Roy cerca approvazione, dolcezza e soprattutto ispirazione e chiaramente finisce con l'innamorarsene. Capiamo Roy (come non farlo, quando accanto a lui vive una mostruosità come Sally?), ma deprechiamo Dia, alla quale Allen ha riservato una sceneggiatura piatta e banale, unite a una volubilità, che forse salviamo solo in virtù dell'età.

Roy e Dia (ma anche il triangolo Sally-Iris-Greg) rappresentano il fallimento di un'etica artistica, di un movimento catartico dell'esperienza estetica: i due fanno sfoggio delle rispettive armi di seduzione, cultura e presunta sensibilità artistica, insieme alla fatale bellezza fisica; in realtà sono animali, indissolubilmente legati da un istinto di sopravvivenza, che viene mascherato con la teoria della Musa e dell'ispirazione, di una falsità atroce.
Roy cerca rivalutazione in Dia, ma il suo egocentrismo ne rivela gli aspetti più banali e deludenti: proverbiale il trasloco al palazzo dirimpetto, in cui vede l'ex-moglie al culmine della sua sensualità. In Dia non c'è nulla di nuovo rispetto a Sally, se non il fatto che Dia non conosce realmente Roy. Costui ha continuamente bisogno di volare di fiore in fiore, al fine di far valere la sua fascinazione di intellettuale e la sua carica erotica. A chi lo conosce a fondo, risulta solo un patetico fallito. Per questo si consuma nell'instancabile desiderare l'altro, senza desiderare se stesso, o come direbbe Seneca: "Ille illius cultor est, hic illius; suus nemo est" (De Brevitate Vitae, 2, 4) (Traduzione: «Questo si cura di quello, quello di quell'altro: nessuno è di se stesso»)

"Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi (...)". (Epistulae ad Lucilium, 1) (Traduzione: «Fa' così, caro Lucilio: rivendica a te il possesso di te stesso»)
Che è la perfetta teorizzazione di un'interiorità tutta rivolta all'esterno, un'interiorità che ormai si è consumata del tutto.

Queste riflessioni fanno da sfondo a un film molto ben diretto, a una sceneggiatura ben costruita. Sicuramente è dominato da una minore vena comico-paradossale, quale invece troviamo sviluppatissima in "Basta Che Funzioni", scritto tuttavia più di trent'anni fa.
Questo è un film nevrotico, chiassoso, ma imbrigliato da uno script sottile e ingegnoso, che tocca punte di appassionante umorismo. A ciò si affiancano le splendide interpretazioni del cast, guidato da Naomi Watts (ormai scafata nel ruolo di instabile), Hopkins (ottimo soprattutto sul finale), Brolin (forse destinato a futuro feticcio di Allen?) e Antonio Banderas (uno dei ruoli migliori della sua carriera). Bravissime anche le caratteriste, Pauline Collins e Gemma Jones, quest'ultima in stato di grazia. Totalmente insignificante, non fosse per la sua sconvolgente bellezza, è l'indiana Freida Pinto, a metà fra "The Millionaire" e "Sognando Beckam, ma non adatta ad un film di Allen.

Come in ogni lavoro del regista, troviamo una sempre più consapevole raffinatezza e sapienza tecnica, che al di là dei gusti, non possono non trovare il riscontro favorevole di un appassionato e sensibile spettatore.
La riflessione alleniana, che si ripete in declinazioni diverse (da "Manhattan" a "Match Point", passando per "Crimini e Misfatti" e "Basta che Funzioni", fino a questo "Incontrerai l'Uomo dei tuoi Sogni"), è un messaggio personale che non smette di ingenerare una ben accetta meditazione esistenziale, sempre stemperata dall'intelligente ironia che contraddistingue Allen e teatralmente pervasa da una grazia e da una dolcezza estemporanee.

Non possiamo quindi che menzionare un'ultima volta Helena, quale unico personaggio positivo del film e riandare col pensiero alle illuminanti parole di Gilbert Keith Chesterton, a proposito di un altro gigante del prendere la vita con ironia (Charles Dickens): "(...) è il principe delle favole, la creatura per metà umana e per metà sorretta da quel barlume di divinità che nell'ora più nera gli ricorda che è destinato a vivere felice per tutta la vita. (...) Egli avanza nella vita armato di quella divina facondia che è la chiave di tutte le avventure. Il semplicione è alla fine dunque vittorioso, ed è lui che gode la vita. Perché cadere in tutte le trappole vuole dire vedere l'interno di ogni cosa. Vuol dire godere l'ospitalità delle circostanze. Con accompagnamento di torce e di trombe, come ospite d'onore, il semplicione viene colto in trappola dalla vita. Lo scettico invece rimane fuori". (da L'incantevole Pickwick di G.K. Chesterton, in "Il Circolo Pickwick, ediz. Oscar Mondadori)

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Recensione a cura di Terry Malloy - aggiornata al 10/12/2010 11.32.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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