Voto Visitatori: | 9,10 / 10 (178 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 10,00 / 10 | ||
La rappresentazione degli orrori umani propria di ogni guerra ha conosciuto gli albori praticamente all'inizio del secolo con i primi rudimentali cortometraggi, in cui si impose lo schema seguente: protagonista (individuo, pattuglia od esercito), missione da compiere, conflitto, raggiungimento dell'obiettivo, gratificazione eroica finale; quasi sempre il nucleo narrativo era rappresentato e raccontato, durante la missione o l'evento bellico in atto, da un solo punto di vista così da ottenere la formula tanto sfruttata nei film di guerra: esercito buono (del quale fa parte il protagonista eroe) e nemico cattivo solitamente crudele ed efferato. Con il tempo molti registi si sono allontanati, o almeno hanno cercato di farlo, da questi cliché, facendo nascere l'esigenza di una revisione critica degli avvenimenti iniziando a donare ai film quel carattere antiretorico tanto criticato dalla stampa, preoccupata della demitizzazione della storiografia patriottica che da sempre aveva nascosto i massacri compiuti durante le guerre mettendo in risalto soltanto il coraggio ed il sacrificio dei soldati.
L'impresa di abbattere il tabù culturale del mito della vittoria stava lentamente prendendo forma.
E' sulla scia di "Orizzonti di gloria" di Stanley Kubrick, uscito appena un anno prima, che lo sceneggiatore Vincenzoni trova l'ispirazione per scrivere una storia sulla guerra dal titolo "Due eroi"; la curiosità del grande regista Monicelli e l'intraprendenza del produttore italiano di maggiori ambizioni dell'epoca Dino De Laurentis fanno sì che da questa storia i due realizzino una straordinaria tragicommedia dall'indirizzo decisamente anticonformista.
Siamo nel 1917; in un distretto militare il destino fa incontrare il romano Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) con il milanese Giovanni Busacca (Vittorio Gassman). La personalità del primo ci è mostrata fin dalle prime battute: l'uomo promette di far riformare l'altro dietro compenso, ingannandolo; lo stesso destino, tempo dopo, fa ritrovare i due in divisa militare su un treno: all'iniziale "scontro" segue la riappacificazione e la loro comune avversione alla guerra li unisce in una profonda amicizia. Inevitabilmente arriva il giorno in cui i due vengono mandati al fronte e nonostante i ripetuti tentativi di imboscamento si ritrovano in trincea.
Con straordinaria abilità Monicelli introduce lo spettatore, attraverso i due protagonisti, nel mediocre ed impotente universo degli eserciti, dove si manifestano tutti i limiti di uno stato guidato da autorità capaci di fronteggiare la tragedia della guerra soltanto facendola pagare a poveri subalterni impreparati e totalmente demotivati.
La drammaticità della guerra è descritta a 360 gradi con tutte le sue contraddizioni: il coraggio convive con la paura, la follia con la codardia, la vita con la morte, sentimenti che si mescolano insieme ai dialetti dei soldati unendo le esistenze, primarie e secondarie, in una coralità commovente; ne è un esempio il soldato Bordin, uomo buono e cordiale, disposto, in cambio di poche lire necessarie per sfamare la famiglia numerosa, a partecipare alle missioni più pericolose sostituendo i commilitoni meno coraggiosi oltre le linee. Questa vigliaccheria, rimanendo sempre nelle retrovie e mandando gli altri a rischiare la vita sotto gli assalti nemici, la vivono anche Jacovacci e Busacca ma non consapevolmente; l'incredulità di fronte ad avvenimenti tanto più grandi di loro e l'apatica mediocrità della loro esistenza hanno il sopravvento sulla razionalità e sulla presa di coscienza della loro situazione. L'indifferenza che consegue l'abitudine alla morte, che viene mostrata loro con la fucilazione di una spia o con l'uccisione a sangue freddo di un nemico mentre tutto solo consumava un rancio, è vissuta dai due come una totale negazione dei sentimenti umani, l'orrore che sostituisce l'amore, il senso del dovere in ambito militare rimane confinato in un limbo a loro sconosciuto.
Il riscatto avviene nel finale, gestito con grande intelligenza da Monicelli, che riesce a raggirare la retorica pericolosamente seducente in questi casi; durante l'ennesimo imboscamento, i due amici si ritrovano in un casale per un rifornimento di materiale, mentre la loro compagnia a pochi chilometri subisce una sonora sconfitta dalle truppe nemiche. Sgomenti ma anche contenti dello scampato pericolo, vengono però fatti prigionieri dagli austriaci ed invitati da uno sprezzante ufficiale a fornire informazioni in cambio della vita sulla dislocazione di un ponte di barche italiano. La loro natura li sta per condurre alla confessione ed al tradimento, ma una frase dell'ufficiale austriaco dal contenuto misto tra ironia e disprezzo fa scattare la molla dell'orgoglio a Busacca che si rifiuta di confessare e viene condotto alla fucilazione; la stessa sorte toccherà a Jacovacci che però, tradito dall'istinto di sopravvivenza, non avrà coscienza della sua morte da eroe, e trascinato davanti al plotone di esecuzione inizierà a gridare "Non voglio morire, io sono un vigliacco, sono un vigliacco!": è il momento più drammatico ma anche più intenso e bello del film.
Straordinaria la capacità di Monicelli di fornire una regia impeccabile, in grado di bilanciare lo spostamento di grandi masse con l'intensità dei primi piani dei protagonisti che con una sorprendente sequenza di sfumature psicologiche che vanno dal riso al pianto, dalla paura al coraggio, dalla sfrontatezza alla commozione ci regalano un' interpretazione straordinaria, con un Alberto Sordi se vogliamo inedito, pur mantenendo una caratterialità ormai collaudata, ed un Vittorio Gassman in un ruolo a lui abituale di personaggio un po' ipocrita, fannullone e sicuro di sè.
Nel 1959 il film ha vinto il Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia ex aequo con "Il generale Della Rovere" di Roberto Rossellini e l'anno seguente due nastri d'argento: Alberto Sordi come migliore attore e Mario Garbuglia per le scenografie.
Da sottolineare l'ottima prova di tutti gli altri attori, da Folco Lulli (Bordin) a Romolo Valli (il tenente Gallina), da Nicola Arigliano (Giardino) a Ferruccio Amendola (Deconcini) e soprattutto alla ventata di allegria e spensieratezza che porta, in uno squallido panorama di morte, la prostituta dal cuore d'oro Silvana Mangano.
La prima guerra mondiale non era mai stata raccontata, salvo mediocri e sporadici tentativi, dal cinema italiano, e che l'abbia fatto Mario Monicelli in questo modo, turbando la sensibilità di molti critici e neanche a dirlo delle autorità militari, incontrando comunque un grande successo di pubblico, dà la dimensione dell'intelligenza e del coraggio di questo grande regista italiano.
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Recensione a cura di Marco Iafrate - aggiornata al 20/03/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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