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"Una forma senza immagine, un atto vivente che dietro di sé non aveva nessuna idea platonica a sorreggerlo..."
"Lo spazio bianco" di Francesca Comencini sarebbe potuto essere (sulla carta) uno dei film italiani più coraggiosi e acuti usciti in questi anni.
Tratto dall'ononimo romanzo di Valeria Parrella, riesce pur sempre a districarsi dalla trappola fumosa delle trasposizioni cinematografiche da bestseller "al femminile", fors'anche per la forza interiore del libro, che non è esattamente quello di una Maria Venturi qualsiasi.
La grande lucidità potenziale del film arriva allo spettatore, però, più per le notevoli soluzioni stilistiche della ragista che per la storia in sé: la Comencini, pur reclamando una sceneggiatura con una forte licenza all'empatia femminile, si dichiara profondamente soddisfatta se è anche solo in parte riuscita a trasporre questa realtà attraverso lo sguardo solitamente indifferente del pubblico maschile, a coinvolgere l'Uomo nel dramma umano e temporale di Maria.
Per questa ragione "Lo spazio bianco" riesce a vincolarsi dignitosamente dal cliché "uterino", dove solitamente prevalgono punti di vista ancorati alla storia e al costume della nostra nazione: su tutti il femminismo degli anni '70 con le sue importanti battaglie a favore di uno stato di diritto laico purtroppo oggi sembra in via di estinzione.
Il libro della Parrella è, prima di tutto, un romanzo laico, dove si racconta della formazione culturale e ideologica, su fronti opposti, di Maria, divisa tra un padre comunista e una madre cattolica, ma di queste esperienze nel film si perdono le tracce.
La Comencini sembra pertanto interessata più al confronto diretto tra l'attesa e la vita quotidiana di Maria, ultraquarantenne napoletana, insegnante d'italiano in una scuola serale, mentre assiste, ora dubbiosa ora fortemente lacerata, alla dolorosissima transizione che riguarda Irene, la figlia nata prematura e sottoposta per settimane in un'incubatrice, davanti a tanti/e nascituri/e come lei, in perenne posizione tra la vita e la morte, tra una rinascita definitiva o a un fatale e precoce interruzione vitale.
Per la seconda volta (dopo il disastroso "I giorni dell'abbandono" di Roberto Faenza) Margherita Buy affronta un ruolo che copre quasi l'intera durata del film, essendo Maria protagonista ambivalente della storia, ma con ottimi risultati.
La forza del suo personaggio è di essere vero, sincero, mai ipocrita: Maria è una donna sola che non disdegna rapporti occasionali, che può anche vivere una relazione sessuale senza farsi coinvolgere affettivamente.
Può sembrare pretestuoso e assurdo parlarne come di una realtà non comune, ma purtroppo nell'Italia di oggi certe convenzionalità sessiste sopravvivono ancora.
La lunga attesa di Maria vive in una forte simbiosi con una realtà sconcertante e per certi versi sorprendente, soprattutto quando il film (o il romanzo da cui è tratto) ci costringe a guardare dentro questa donna, divisa tra il rifiuto anche ideologico della maternità ("una donna a 40 anni non fa figli") e una nuova consapevolezza materna, unita ovviamente a un forte senso di frustazione davanti al fatto che la realtà potrebbe nuovamente tradìrla.
Il lasso temporale del film, che sembra infinito, costringe la protagonista ad attraversare la propria vita quotidiana "come se avesse una benda negli occhi", capace com'è di respingere le difficoltà di una città come Napoli o le dimostrazioni affettive dei personaggi che interagiscono insieme a lei (dal giovane medico con cui intreccia una relazione disinteressata al maturo "alunno" della scuola serale).
La Napoli del film è un vero e proprio set cinematografico dove la Buy sembra unica esistenza effettiva, una città quasi metafisica, come la Londra inquietante e laconica di "28 giorni dopo" di Boyle.
Una metropoli dove traspare una sorta di purezza ancestrale, tuttavia rassicurante e ben diversa dal fragore urbano e dalle problematiche sociale per cui è riconosciuta.
La forza del film, è - come dicevamo - dovuta più alla capacità tecnica della regista che al contenuto. La spersonalizzazione di Maria, mentre incombe davanti ai lunghissimi minuti trascorsi in ospedale nello "spazio bianco" delle incubatrici, davanti ad altre madri in perenne attesa come lei, sembra mutarsi ogni volta in una sorta di perdìta ambientale, e più tutto questo avviene più si acquisisce, paradossalmente, una rinnovata (per quanto faticosa) coscienza della donna: madre fortemente divisa anche dalle proprie convinzioni, ma pronta a riscattarle e modificarle, quando serve (diversamente da un testo come quello di "Lettera a un bambino mai nato" della Fallaci, che propende fin dall'inizio per la rivalsa genetica delle responsabilità maschili).
Se però l'interiorità di Maria, chiusa nei suoi pensieri e nelle sue laceranti attese, a poco a poco acquista un bisogno di aprirsi con gli altri (mentre "lo spazio chiuso" dell'ospedale, nonostante la sua rassicurante visione assistenziale, determina un complesso cordone ombelicale tra la speranza e il fallimento!) la Comencini tenta, con uno sforzo commovente, di liberare la prigionia delle forme anche istituzionali mettendo in risalto un forte complesso onirico, diciamo pure bergmaniano, che a tratti risulta suggestivo ma lievemente artificioso.
La prova della Buy è comunque assolutamente straordinaria: le nevrosi di Maria, amplificate dalla vicenda che la riguardano, non sono esattamente le stesse con cui ci ha abituato l'attrice nel corso di questi anni.
Sembrano appartenere a un mondo che forse ci è (misteriosamente) distante, e che forse per questo deve riguardarci da vicino.
C'è "spazio" per tutti: dall'ex amante di Maria, novello padre di un figlio avuto da un'altra donna, alla vicina di casa magistrato che ha lasciato i figli per occuparsi di un importante caso giudiziario (il riferimento palese è alla discussa Ilda Boccassini) a Mina, una ragazza che ha partorito anch'essa un bimbo prematuro e si trova in forti difficoltà economiche.
I personaggi ruotano attorno a Maria, quasi sempre con la costante prevalenza del tema materno e/o paterno, mentre l'incombenza di una fatidica data finisce per diventare inesorabile, e con essa l'emozione provata dagli spettatori.
Il film riesce pertanto a superare splendidamente l'elissi temporale della vicenda, fino a coltivare sempre più la speranza, insieme alla protagonista, quasi un processo virtuale che porta gli spettatori a testimoniare attivamente dei progressi raggiunti dal nascituro durante il lungo processo verso un'epilogo tormentato, tardivo e liberatorio.
Nel bel libro della Parrella, però, "lo spazio" concesso ai comprimari rischiava di sconfinare in una serie di inutili apparati romanzeschi, e purtroppo neanche il film riesce a evitarlo: a tratti la regista rischia di impaludarsi nelle penombre sterili della fiction televisiva, nonostante l'indubbia capacità di realizzare una storia quasi "comune" con una visionarietà ben lontana dalle convenzionalità del tipico "prodotto di massa"(ottimo il piano-sequenza dal soffitto dell'ospedale mentre ispeziona decine di incubatrici).
Però,caspìta, persiste comunque una forte centralità direzionale nella capacità di un film, rischiosamente uniforme, di raccontare la vulnerabilità di un trapasso, impercettibile, simbiotico, "nel limbo", dove tutto può mutare, testimone delle latenti imprevedibilità delle leggi naturali, davanti a una vita che sappia o possa (r)esistere e reclamare il diritto alla propria continuità.
È grazie a questo "transìto genetico" che possiamo ancora sperare ottime cose per il nuovo cinema italiano.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 15/10/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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