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Coinvolta insieme a un gruppo di tossicodipendenti in una rapina a una farmacia finita in strage, Nikita, tossica in crisi d'astinenza e in apparente stato confusionale, ammazza a sangue freddo un poliziotto prima di essere arrestata. Di lei si sa solo questo: Nikita è una ragazza selvaggia, dagli improvvisi scatti brutali e animaleschi incontrollabili che la destano da stati quasi catatonici, senza un passato chiaramente identificabile che non sia quello della giungla urbana malavitosa in cui vive e nella quale l'unico segno di riconoscimento possibile è il nomignolo "Nikita" con cui la donna si autoidentifica.
Nikita è, insieme, un nome in codice, di battaglia, tanto semplice quanto simbolico ed efficace, un nome evocativamente fumettistico, quasi fosse, la ragazza, la personificazione di un anime, di un manga; è, ancora, una sorta di nickname da videogioco che sintetizza la virtualità individuale nella cultura informatica che va prendendo sempre più piede nella seconda metà degli anni '80, periodo nel quale si sviluppa la trama del film.
È proprio il concetto d'identità uno dei principali fondamenti del film: Besson è abile nel non svelarla mai, pur lasciando intendere che Nikita abbia un passato anagrafico certo e certificato: prima di iniziare il programma di "recupero", Nikita, immobilizzata come una matta su una sedia nel bel mezzo di un grande camerone spoglio del carcere, prefigurando la propria fine, in un momento di straziante disperazione, invoca la madre, simbolo universalmente garante d'identità.
E ancora, appena dopo il risveglio dalla "morte", l'agente dei servizi segreti, che diventerà di lì in seguito il suo ambiguo precettore, le mostrerà le foto del suo funerale, foto nelle quali Nikita riconosce una persona a cui è fortemente legata da tempo: esiste, cioè, una vita esterna della ragazza riconoscibile attraverso queste tracce e c'è, soprattutto, lo Stato che conosce la sua vera identità. Essa gli permette di processare e condannare la donna e, infine, di disporre della stessa identità a proprio piacimento tanto da privargliela, cancellandola e sostituendola con altre di proprio comodo e a proprio uso e consumo.
Besson situa queste tracce identitarie subito prima e subito dopo la cancellazione della Nikita ufficiale, di quella donna che aveva una riconoscibilità anagrafica documentata, anche se non rivelata. Sottolinea in tal modo la drammaticità di un momento di non ritorno e accentua i toni tragici di un passaggio esistenziale incontrovertibile nella vita della donna, conferendo alla sfera umana della protagonista un destino ineluttabile.
Condotta in catene nell'aula del tribunale e scortata da un corposo cordone di sicurezza, Nikita diventa iconograficamente una novella Giovanna d'Arco, selvaggia e sanguinaria – la stessa che Besson racconterà di lì a un decennio –, al cui misticismo medievale si sovrappone un'animalità, tossica e sconvolta, devalorizzata, pre-urbana ma post-moderna e (cyber)punk(abbestia) di fine '900. In questa rappresentazione estetica il personaggio di Nikita ricorda per certi versi Pris e le replicanti di "Blade Runner".
Lo Stato la condanna all'ergastolo e al carcere di massima sicurezza per trent'anni: Nikita è annientata, praticamente condannata a morte e sepolta. E la morte figurata diventa ufficiale ed esibita con la simulazione del suicidio in carcere della ragazza, messa in atto dallo Stato al fine di sottrarle l'identità e di inserirla in un piano di recupero che ne resetti radicalmente le attitudini criminali e la reimpieghi al proprio servizio, sporco e segreto.
Nikita negli interrogatori si definisce sempre con il suo nome "d'arte", che lascia intendere una volontà della ragazza di persistente clandestinità (militante), di non riconoscimento delle istituzioni statali – repressive –, e, idealmente, di estraneità al mondo urbano e borghese e alle sue regole codificate.
Il nome Nikita è anche un anelito di libertà, tanto infantile quanto criminale, da ogni vincolo, anch'esso codificato e ufficialmente accettato nella comunità: quando l'agente segreto, nel suo primo interrogatorio nella cella del centro di rieducazione, le chiederà la provenienza di quel nome, Nikita risponderà solare e con sorriso fanciullesco: "Da una canzone" (di Elton John, nda), felice come una bambina che qualcuno finalmente le abbia posto la domanda giusta, quella che le permette di rivelare con gioia l'origine della cosa che le appartiene di più, il suo nome da lei personalmente scelto, che le si addice maggiormente e che, in uno slancio di estrema autodeterminazione libertaria, le modifica e le dona la propria identità preferita e definitiva.
Tutta la psicologia iniziale di Nikita è semplice, non strutturata: Nikita sembra conoscere solo le frivolezze infantili/adolescenziali delle canzoni urlate a squarciagola, magari inventate sul momento, delle patatine mangiate davanti alla tv, dei graffiti sui muri, delle gomme masticate all'infinito e riciclate, degli scherzi perversi.
Nel centro di rieducazione, però, Nikita si rende conto ben presto che per lei non c'è più via di scampo e che se mai uscirà viva da quelle mura, non sarà più come "Nikita", o la Nikita di prima. Lo Stato si è impossessato di lei, della sua identità, del suo corpo e di tutta la sua vita, detiene indiscusso diritto e arbitrio sul suo destino e ne disporrà come e quando vorrà, senza scrupoli.
Nikita, quasi 20 anni, "ha un debito che non si estigue": le catene di ferro del tribunale che la legano allo Stato sono eternamente morali.
La riprogrammazione statale coatta prevede l'educazione e la correzione della violenza, non per eliminarla definitivamente, ma per piegarla al proprio servizio. L'animalità anarcoide e individualista di Nikita viene rielaborata, smussata, ingentilita, civilizzata e femminilizzata in modo da essere governata e diretta. Se nella vita precedente Nikita, priva di qualsivoglia segno di femminilità (intesa in senso borghese), è l'unica donna in una banda di maschi, ma con la libertà di autodeterminarsi, ora, requisita e riprogrammata dallo Stato, continuerà a essere sola in un apparato esclusivamente maschile, rieducata e forgiata da uomini secondo i loro gusti e la loro idea del femminile.
Ad occuparsi della femminilizzazione coatta di Nikita è, non a caso, un'altra donna senza identità, interpretata da un'affascinante e intensa Jeanne Moreau, anch'ella privata della propria esistenza pignorata dallo Stato per un debito inestinguibile. È l'unica donna, oltre Nikita, in questo universo maschile e non può che riproporne le istanze ideali: il suo ruolo è quello di trasformare l'enfant sauvage Nikita, che reputa il fascino una "coglionata", nella femme (létale) Nikita, borghesemente civilizzata e addomesticata, farla diventare "l'essenziale dell'uomo: una donna". In questa definizione c'è la sintesi del pensiero maschile al quale la ex-killer ora truccatrice Jeanne Moreau, riprogrammata a sua volta tempo addietro, si è ormai del tutto piegata con rassegnazione.
La rieducazione di Nikita non decolla. Se essa prevede la decostruzione del personaggio originale e la riprogrammazione in una struttura psicologica, caratteriale, comportamentale e culturale più complessa e articolata, Nikita deve abbandonare definitivamente la propria identità/personalità ed essere altro da sé, conservando solo le caratteristiche fondamentali della violenza e della spietatezza.
A guidare il processo di rieducazione vi è un agente segreto, chiamato in seguito Bob, interpretato da un glaciale e strepitoso Tcheky Karyo, che diventa il principale riferimento umano con il quale Nikita interagisce.
Il suo potere, la sua ambiguità destabilizzano Nikita, che all'uomo deve praticamente la vita: sta a lui decidere se continuare il programma di correzione o terminarlo, come vorrebbe il Capo (un impassibile Philippe Leroy), una sorta di rappresentazione sintetica ed efficace della burocrazia statale, fredda e cinica, che dietro una scrivania ingombra di timbri, in un banale e anonimo ufficio, dirige le operazioni di recupero, le missioni, la vita e la morte di altra gente. Un lavoro sporco senza sporcarsi le mani se non d'inchiostro.
Nikita non ha scelta: se non si piega al volere statale, se continua a non rispondere alle sollecitazioni propostele, non avrà scampo. Non potrebbe più essere liberata, né reincarcerata, in quanto ufficialmente morta. In questa assenza di alternative si riverbera il senso tragico del destino di Nikita – rappresentata ora come fragile e al contempo brutale – che per il mondo esterno non esiste più e non potrà mai più esserci.
Con un salto temporale di tre anni si assiste alla metamorfosi più o meno compiuta di Nikita. Quella che si mostra inizialmente è proprio la metomorfosi estetica: Nikita è diventata una bellissima donna, che sa prendersi cura del proprio fascino e della propria femminilità.
"Due cose non conoscono limiti: la femminilità e i modi di abusarne". I precetti della truccatrice-mentore si fanno linee guida affinché Nikita diventi una donna apparentemente normale, ma che alle armi da fuoco unisca sapientemente anche quelle della seduzione e del fascino in funzione della propria missione.
Il premio per l'impegno profuso, che l'agente vuole concedere a Nikita, è, in realtà, la prima prova necessaria a testare l'efficacia del lavoro di riprogrammazione. Invitata a cena dallo stesso agente in un lussuoso ristorante parigino per festeggiare il ventitreesimo compleanno della donna, Nikita appare per la prima volta in tutto il suo splendore, radiosa e sensuale come non è stata mai nel suo nero abitino elegante: esteticamente non c'è più nulla della rozza e selvaggia killer punkabbestia di tre anni prima. Anche la sua rabbia esistenziale sembra svanita nei ricordi e ora, al tavolo, per la prima volta con un uomo altrettanto distinto, si lascia sopraffare per un momento, seppur breve, dalla dolcezza e dalla spensierata felicità per un regalo in una serata apparentemente speciale, diversa, galante, borghese, come una qualsiasi fortunata donna della Parigi bene che lei non ha mai potuto (e mai immaginato di) essere.
Ma è gioia effimera, un'illusione di un momento, che fa i conti col destino segnato, quella gioia per un pacco regalo che si rivela essere l'arma per la prima missione-prova a cui Nikita è sottoposta.
Nikita compie la sua missione senza batter ciglio e, seguendo le istruzioni datele dall'agente, tenta la fuga attraverso le toilettes. Ma è una trappola. Costretta a un surplus di lavoro, Nikita si ritrova invischiata in un conflitto a fuoco nelle cucine del ristorante, conflitto tra i più significativi della storia del cinema: a fare da contrasto all'efferatezza della scena c'è tutta la bellezza e la femminilità di Nikita/Anne Parillaud che, a un passo dalla disperazione per il tradimento subito e per la consapevolezza dell'ineluttabilità della propria sorte, corre, spara, uccide e schiva colpi sensualmente avvolta in un tubino da sera, i collant e i tacchi a spillo. In questa immagine Nikita diventa una sorta di modello femminile ideale – almeno al cinema – dei decenni successivi; un'immagine che disegna una donna brutale e spietata assassina, al contempo fragile e delicata e sufficientemente dotata di quel bagaglio di sensualità e seduttività che la renda gradita all'universo maschile e in tal modo lo rassicuri sui ruoli e sulla perseveranza delle dinamiche ancestrali. Che la bellezza e la fragilità debbano a tutti i costi connotare l'essenza femminile?
La prova è superata brillantemente, nonostante l'indecorosa salvezza nel cassonetto dei rifiuti a conclusione della speciale serata di compleanno. Nikita corre nella pioggia, che le lava di dosso lo sporco dei rifiuti e del lavoro di assassina di Stato. Lacera, umiliata, ferita più nell'animo che nel corpo, la donna rientra nelle segrete dei palazzi istituzionali, attesa dal fiducioso e soddisfatto agente.
Nikita è diventata una perfetta macchina da guerra, capace di ben figurare, con la sua presenza, anche nei salotti buoni che è chiamata a frequentare per le missioni. Il programma di conversione è riuscito perfettamente. Ora Nikita può e deve uscire dalla sua cella di detenzione/rieducazione e affrontare le missioni da cittadina apparentemente libera e normale.
Le vengono assegnati un nome fittizio, di copertura, e uno in codice per le missioni: da questo momento Nikita non esiste più definitivamente, la macchina cinica dello Stato l'ha cooptata del tutto, fornendole di sua iniziativa una nuova duplice identità a cui Nikita dovrà attenersi. In ogni caso per lei inizia una nuova vita, da donna borghese, che non ha mai conosciuto e praticato prima di allora. Del mondo urbano non sa nulla e, per imparare la prima basilare esperienza, cercare da mangiare civilmente, Marie/Nikita imita le altre donne al supermarket. E il supermarket diventa, simbolicamente, anche il luogo della socialità e della civilizzazione, di ritorno alla vita reale e vissuta, allorquando Nikita conosce e invita a cena il cassiere, una bravo e simpatico Jean-Hugues Anglade.
Nikita, pur rieducata, è ancora preda di passioni ed emozioni senza controllo e non resiste nemmeno il tempo di una cena al desiderio fisico. Marco, il cassiere, diventa il suo fidanzato e l'unica persona del mondo reale, borghese, con cui relazionarsi stabilmente, un riferimento che le permette di affrancarsi, idealmente, dalla ambigua dipendenza esistenziale e affettiva del suo precettore dei servizi segreti.
In quel piccolo, condizionato spazio di libertà, Nikita sembra ritrovare una parvenza di serenità e di istintualità primigenia, priva però di brutalità, come prima della rieducazione. Serenità che svanisce al sopraggiungere delle improvvise chiamate per le missioni. È in quei momenti che Nikita capisce che non potrà mai avere una vita normale e che lo Stato torna a esigere il proprio dazio e i servigi dovuti.
Al termine di una missione fallita nei piani, ma conclusa nella sostanza, Nikita esausta fugge via facendo perdere le proprie tracce. Clandestina per scelta libertaria nella prima parte della sua vita, coattamente clandestina per volontà altrui dopo la condanna, Nikita è destinata a inseguire altre identità non avendone più una veramente sua, per quel debito con lo Stato che non si estingue e che la segna per sempre. Ma la ribelle, semplice, primitiva Nikita ha ormai lasciato definitivamente il posto alla consapevole femme Nikita.
Con un cast francese di prim'ordine, composto da vecchie glorie del cinema transalpino come Philippe Leroy e Jeanne Moreau qui nelle vesti di lussuosi comprimari; con un allora emergente Jean–Hugues Anglade tagliato per la parte del tranquillo cassiere che attrae l'inquieta Nikita; con una straordinaria Anne Parillaud a dare corpo e anima al personaggio tormentato e vibrante di Nikita e, in tutto questo, capace di creare un immaginario estetico di eroina guerrigliera; e con il decisivo contributo di due dei migliori volti del cinema mondiale (non solo d'Oltralpe) come Tcheky Karyo e Jean Reno, "Nikita" è senza dubbio uno dei migliori film d'azione europei, tanto importante da aver ispirato un remake hollywoodiano con Bridget Fonda e una omonima serie televisiva canadese, oltre ad aver sdoganato definitivamente la figura cinematografica di donna guerriera sensuale e spietata, ripresa in tante altre pellicole successive e, più in generale, di averla elevata a protagonista assoluta, sottraendo alla dimensione maschile il monopolio dell'eroe combattente e della violenza stessa.
In questo senso, poi, va aggiunto che Besson riesce a descrivere l'uso della violenza femminile, l'altro aspetto principale di "Nikita", insieme a quello dell'identità, come una coazione esercitata da un universo prettamente maschile – e, ripetiamo, persino maschilista – nei confronti di una donna, dosandola con una notevole caratterizzazione psicologica della protagonista.
Se la violenza primigenia di Nikita è anarchica, libertaria, autodeterminata, pur se risolta e definita in un ambito di ribellione alle regole e sostanzialmente priva di valori borghesemente condivisi(bili), anche qui sola donna tra uomini, la violenza a cui Nikita viene successivamente rieducata è una violenza concettualmente e ancestralmente tutta maschile, la violenza cioè dello Stato e del potere, dell'ordine costituito.
Il pregio fondamentale di "Nikita", oltre alla oggettiva buona fattura tecnica e a quella interpretativa dei protagonisti, sta, appunto, nell'aver saputo fondere un genere cinematografico solitamente poco europeo come l'action movie con un'introspezione psicologica dei protagonisti più vicina alla sensibilità europea del cinema d'autore, che conferisce un maggiore realismo alla trama e ai caratteri del film.
Pur essendo Nikita un personaggio molto più legato ai fumetti (la semplificazione delle identità dei personaggi è significativa in tal senso: Nikita, l'agente, l'eliminatore, il capo, ecc.) e ai videogames che alla realtà, il dramma e la tragedia della sua vicenda la umanizzano a dispetto delle situazioni in cui si viene a trovare.
Questo film ha spalancato le porte verso il successo e la consacrazione definitiva per Luc Besson, che ha avuto poi la possibilità di accedere a progetti più ambiziosi, ma forse meno riusciti di "Nikita".
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Recensione a cura di gerardo - aggiornata al 01/02/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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