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Il pubblico inglese ha premiato, con il maggior incasso di tutti i tempi, un filmetto semplice semplice e molto divertente, contagioso nella sua simpatia proletaria e trascinante nella sua vitalistica energia, eppure, a mio modo di vedere, sopravvalutatissimo e non meritevole di così tante lodi e apprezzamenti. In primo luogo, perché finge di essere naïf e invece adotta una struttura narrativa ampiamente collaudata da decenni di cinema hollywoodiano: quello di uno o più personaggi che si preparano a un'impresa (una gara, un esame o una qualsiasi prova pubblica) e che vengono seguiti lungo questo percorso, che prevede sempre, immancabilmente, momenti di esaltazione e di scoramento, di difficoltà improvvise e di altrettanto improvvisi superamenti delle stesse, di rinunce e di ripensamenti in extremis, tutte cose che non si fatica a ritrovare in "Full monty". Secondariamente, per essere un film di un quasi esordiente, ci si sarebbe potuti aspettare un film un po' meno politically correct, e invece "Full monty" lascia gli aspetti sociali ai margini (com'è realmente più proletaria una pellicola come "Nuvole in viaggio"!), toccando per contro moltissimi degli stereotipi più in voga nei film degli ultimi anni (tra i quali, padre separato che lotta per non perdere il figlio, marito con problemi di intimità con la moglie, e persino una coppia omosessuale e un personaggio nero per ricordarci che viviamo in una società interazziale e intersessuale). "Full monty" ha dalla sua solo il merito di non essere un film indisponente e presuntuoso e di scorrere con bella disinvoltura narrativa fino a un finale liberatorio e bonariamente trasgressivo.