Nel settembre del 1944, con la forza della disperazione, Varsavia insorge contro gli occupanti tedeschi, che contrattaccano con tutto il peso della loro struttura militare. Un gruppo di patrioti cerca di sfuggire all'accerchiamento tedesco attraverso le fogne ed è una terribile odissea che si carica progressivamente di toni da tragedia, man mano che le fila di questi ardimentosi si assottigliano.
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"Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso vidi gente attuffata in uno sterco che da li uman privadi parea mosso "
Una ripresa a volo d'uccello sulla distruzione, brandelli di muri, polvere, una malconcia sacca di resistenza che marcia fra le rovine. Wajda vuole focalizzare da vicino i suoi personaggi, ce li presenta con particolari bizzarri, confidenziali. Seguono immagini di ordinaria drammaticità: una ragazza con la gamba amputata, l'Artista e la sua famiglia annientata all'altro capo del telefono, mine che esplodono. Per scampare alle truppe tedesche e raggiungere il centro di Varsavia la compagnia si cala nelle fogne. Dall'inferno a cielo aperto lo spettatore viene catapultato in un girone buio e flatulente, fra ***** e fumi chimici. Lo sguardo registico cambia quasi radicalmente per adattarsi al nuovo ambiente. Le larghe inquadrature cedono il passo ai primi piani, talora al dettaglio. E' quasi un cinema del volto. Il gioco di luci ed ombre è visivamente stupefacente, emotivamente logorante. Il realismo quasi documentaristico delle prime sequenze tramonta a favore di un'allucinazione dell'orrore. In quel delirio folle, in quell'ansietà insopportabile, Wajda istilla la sua autentica, tragica poesia. Devastante l'immagine di Daisy che sottrae l'amato al trapasso della speranza, lacerante l'ultimo fotogramma.
Qualcuno dice che c’è sempre una via di uscita. Che è sufficiente provarci, avere coraggio. Che da ogni situazione, se si ha la volontà, ce ne si può cavare fuori. Provate a chiederlo a quei partigiani polacchi, nella Varsavia assediata del 1944, se tutto ciò è possibile. Provateci, ma non vi risponderanno. Sono morti, tutti, e non di vecchiaia. Orribilmente, al buio, tra il fetore, tra i miasmi, tra la mer.da, come topi. Anzi i topi nelle fogne si sonno adattati, si nutrono, prolificano, ci vivono. Loro sono morti come uomini. Provate a chiederlo a Wajda, uno di quegli artisti che la guerra l’ha vissuta. Uno di quelli ai quali la guerra è entrata nelle ossa, sino a diventarne il midollo. Wajda, uno di quelli che ha cominciato a chiederselo da “Pokolenie”, che proseguirà con “Cenere e diamanti”, che s’ostinerà a farlo per tutta la sua carriera. Guardatevi “I dannati di Varsavia” e loro vi risponderanno: No, non esiste via di fuga alla guerra. Nessuno di quei partigiani troverà uscita alle fogne, a quei dedali d’asfissia e terrore che disperderanno, tra i loro atri condotti, le diverse storie dei sopravvissuti, sino a sopprimerli. Esse che richiameranno a sé l’unico scampato, il comandante; che sbuca fuori la testa, accolto dalla luce, tra le rovine del centro di Varsavia, ora immagini di salvezza; e si trasforma in assassino, e nuovamente s’inabissa.
Allora ditemi, se questi tra la mefite, nelle tenebre, tra le feci come topi; questi, dannati di Varsavia, spinti dalla disperazione in cloache d’angoscia, e costretti a strisciare in luridi cunicoli al pari degli scarafaggi; dite voi - qualora possiate asserirlo - ditemi, “se mai questi furono uomini…”
Una sparuta compagnia di 43 ribelli (corrispondente quasi alla nostra resistenza partigiana) nella Varsavia del '44, occupata quasi interamente dai tedeschi, è costretta a ritirarsi attraverso il sistema fognario (Kanał in polacco).
Una storia di guerra (che poi si dirama in tre epopee parallele di diversi protagonisti), secondo film della trilogia bellica, insieme a "Generazione" (Pokolenie, 1955) e "Cenere e diamanti" (Popiół i diament, 1958) di quello che considero uno dei tre migliori registi polacchi del novecento (insieme a Munk ed a Kieslowski), Andrzej Wajda. Una pellicola molto pessimista, rappresentativa della situazione della Polonia in tempo di guerra, assediata sin dal ’39. La morale è chiara: non esiste speranza, i sentimenti (l'amore, la solidarietà fra compagni) non ci salvano dall'orrore: la guerra è guerra, è solo l'amore per la vita che ci spinge a strisciare negli abissi per trovare la via della salvezza, ma sperare di salvarsi è inutile, l'unica certezza è la morte o altra sofferenza. Concetto perfettamente coerente, se ci si pensa, con il titolo italiano: i dannati dell’Inferno sperano in continuazione di poter trovare la luce e di porre fine al loro tormento, ma ciò non potrà mai accadere ed in terra c’è solo altro dolore. L’accostamento Inferno – condotto fognario funziona a meraviglia, puzza e lamenti corrispondono all’immaginario collettivo di Inferno (per i più di provenienza dantesca ma anche di altra), con la sola differenza che i dannati hanno commesso peccati in vita, questi soldati invece non hanno colpa; ma questo parallelismo scaturisce dalla “traduzione” italiana del titolo originale che in realtà con essa non ha nessuna relazione di significato, quindi questa interpretazione rimane esclusivamente a livello di supposizione.
La cinematografia polacca riguardo alla seconda guerra mondiale si rivela ancora molto efficace come in "Eroica" (1958) di Andrzej Munk, anche se rispetto a questo Kanal è molto più schietto e diretto e molto meno "emotivo", nel senso che non si concentra molto sulle emozioni e sui pensieri delle persone - anche perchè non concede un minimo momento di pausa per esaminare i sentimenti dei personaggi, che sono continuamente incalzati dalla sofferenza, dalla disperazione, dalla paura di morire o di essere catturati dai nazisti, dal loro attaccamento alla vita per cercare la salvezza - ma sulla loro condizione disumana di soldati in guerra. Insomma, per spostare l'attenzione dello spettatore sul lato emozionale della situazione abbiamo bisogno di momenti di "inattività", cioè di intervalli di tempo in cui si possa fare uso più o meno massiccio di dialoghi e/o nei quali la guerra non si manifesti esplicitamente (con esplosioni, sparatorie o con la sofferenza dei protagonisti) e questo accade pressoché in tutti i film di guerra che abbia visto: "Full metal jacket" (le scene delle "interviste"), "La sottile linea rossa" (i lassi di tempo inattivi tipici di Malick), "Salvate il soldato Ryan", ma soprattutto "Jarhead" (il film di guerra statico per eccellenza), "Flags of our fathers", "Letters from Iwo Jima" (l'analisi, tramite flashback, del passato dei protagonisti o la scrittura delle lettere) o volendo spostarsi fuori dall'ambito della Seconda guerra mondiale, film come "Glory - Uomini di gloria che inserisce la guerra vera e propria all'interno di un ambito che riguarda soprattutto le discriminazioni razziali dell'America di fine Ottocento, e non viceversa): è questo che ho trovato innovativo in questo film.
Inoltre mentre questo propone una visione totalmente pessimistica della guerra mentre in "Eroica" si cercava di bilanciare i due aspetti - non a caso è un film diviso in due episodi, il primo in chiave comica (ma senza dimenticarsi che la guerra non è uno scherzo, insomma come ha cercato di fare Monicelli ne "Le rose del deserto" senza riuscirci) ed il secondo in chiave seria. Bellissime le musiche del polacco Jan Krenz (che ha collaborato spesso con Wajda e di nuovo con Munk in "Eroica"). In definitiva un film magistrale, persino doppiato (anche se avrei preferito la versione sottotitolata) con un finale altrettanto magistrale ed interpreti molto bravi. Spero di poter approfondire il cinema polacco riguardante la seconda grande guerra (anche e soprattutto guardando gli altri due della trilogia) perché ha rivelato di essere intenso almeno quanto quello ben più conosciuto americano.
P.S. Guardate che bello la locandina, è un quadro vero e proprio realizzato da un certo Jan Lenica nel 1957 apposta per il film.