il rito regia di Ingmar Bergman Svezia 1967
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il rito (1967)

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locandina del film IL RITO

Titolo Originale: RITEN

RegiaIngmar Bergman

InterpretiIngrid Thulin, Anders Ek, Gunnar Björnstrand, Erik Hell

Durata: h 1.12
NazionalitàSvezia 1967
Generedrammatico
Al cinema nel Novembre 1967

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Trama del film Il rito

Tre attori, un uomo, la moglie e l'amante, finiscono davanti a un giudice, accusati di oscenità per il loro spettacolo. Il giudice fa replicare la scena incriminata: sconvolto, violenta l'attrice e muore d'infarto.

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Voto Visitatori:   7,77 / 10 (11 voti)7,77Grafico
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Voti e commenti su Il rito, 11 opinioni inserite

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  Pagina di 1  

Filman  @  25/11/2020 17:12:10
   8½ / 10
In RITEN poche stanze, quattro protagonisti e un mare di parole riconducono a riflessioni psicologiche, in bilico tra il concreto e l'astratto, sull'atto e sul desiderio sessuale. Ingmar Bergman dirige a tutti gli effetti un film psicologico, totalmente mentale, che destabilizza lo spettatore, disturbandolo e provocandolo. Il minimalismo è funzionale non solo alla direzione teatrale e drammaturgica dell'autore ma anche alla totale mancanza di appigli, schemi e sovrastrutture. Più che una pellicola pare una scatola di emozioni, sensazioni in cui il regista ci rinchiude insieme alla sua mente.

Gruppo COLLABORATORI SENIOR elio91  @  10/04/2012 20:20:39
   8 / 10
Pensate: film televisivo di Bergman. Come se non bastasse il nome alla regia, mettiamoci pure che questo suo "piccolo" film è tra quelli diretti e pensati nella fase più furiosamente sperimentale della carriera del maestro svedese; in pratica sarebbe potuto essere un film da sala in tutto e per tutto, come tanti altri esempi illustri (mi viene subito in mente "I Clowns" di Fellini).

Strutturato in brevi capitoli, tagliente come una lama di rasoio, è il "solito" discorso di Bergman sui rapporti di coppia, ma in particolare l'aspetto privilegiato questa volta è dei rapporti tra arte e potere, rappresentati rispettivamente nelle vesti di tre attori e un ispettore/giudice che li interroga.
Fa specie vedere come tutti i personaggi, in tutto quattro, (escludendo il breve frammento del prete interpretato dallo stesso Bergman, su cui tanto ci sarebbe anche da dire) solo quattro personaggi appunto siano in realtà visti sotto una lente che li propone in chiave negativa: gli attori si tradiscono tra di loro, si insultano, mentono, il censore o ispettore che dir si voglia si lascia coinvolgere da un Rito che lo fulmina. A conti fatti, nel disordine morale che tanto sconforta lascia, Bergman individua proprio nel quarto incomodo il personaggio davvero negativo, quel rappresentante del potere incalzante e sempre più invadente fino a travalicare un certo limite dopo il quale non si può tornare indietro.
Semplicemente da togliere il fiato il capitolo finale del Rito.
Ma è tutta la messinscena cosi sperimentale, scarna negli interni eppure esteticamente ricca e travolgente a stupire.
L'ennesimo gioiello di Bergman.

Gruppo COLLABORATORI Compagneros  @  16/03/2012 17:36:41
   7½ / 10
Solito grande Bergman. Un film che tocca temi importanti come arte e morale. Un lavoro altamente teatrale, diviso in atti e con la camera spesso fissa sui volti dei quattro ottimi protagonisti.
Il fatto che fosse destinato alla televisione, è un qualcosa su cui riflettere.

Invia una mail all'autore del commento Elly=)  @  11/08/2011 00:12:23
   7 / 10
Tre attori: un uomo, la moglie e il suo amante sono convocati da un giudice che indaga sulla presunta oscenità del loro spettacolo. Questi tre personaggi sono indissolubilmente uniti, non possono fare a meno l'uno dell'altro e non possono funzionare a due a due. É soltanto nella tensione fra i tre vertici del triangolo che può nascere qualcosa. Con un linguaggio drammatico estremamente coinvolgente, Bergman si interroga sul valore profondo dell'arte e sui limiti della morale. Un esempio estremo di cinema a porte chiuse, un esercizio per cinepresa e quattro attori straordinari.

Gruppo REDAZIONE amterme63  @  26/01/2011 21:21:15
   7½ / 10
A guardarlo oggi ci si meraviglia di come questo film possa essere stato pensato, girato e proposto per il mercato televisivo. Ora come ora sarebbe impensabile trasmetterlo in prima serata tv e questo la dice lunga sullo scadimento qualitativo del piccolo schermo.
Occorre però anche riconoscere che si tratta di un'opera difficile, ostica, decisamente "non per tutti". E' un prodotto molto intellettuale, in cui si presentano immagini e concetti ricorrendo a nessi visivi e logici piuttosto sofisticati e complessi. Per capire ed apprezzare occorre la mente accessa e pienamente funzionante (cosa non facile, visto il ritmo decisamente lento).
Una traccia narrativa e di suspence comunque c'è ed è di stampo kafkiano. Assistiamo ad una specie di requisitoria in piena regola, senza avere dati e indizi diretti sulla ragione per la quale la requisitoria è stata intentata. Le situazioni e le ragioni si dipanano lentamente tramite la presentazione dei caratteri, in un crescendo emotivo-etico che sfocia in un finale scabroso e intellettualmente drammatico.
Lo scopo è quello di dibattere i temi cardine di tutta l'opera di Bergman; in questo caso il difficile rapporto fra la naturale libertà della creatività artistica e i paletti posti dalle regole sociali e burocratiche, il contrasto fra l'irrazionalità umana e la pretesa di distacco e controllo da parte della parte"razionale", l'estrema difficoltà, l'instabilità perenne e il disagio profondo nell'instaurare rapporti amorosi e confidenziali fra le persone, lo scacco e l'infelicità dell'esistenza umana, il vuoto e la vanità di qualunque costruzione metafisica (arte compresa).
Si tratta a grandi linee degli stessi temi che Bergman aveva affrontato in "Il volto". In quel film erano trattati in maniera diretta e chiara e riferiti al passato, qui invece vengono attualizzati e resi in maniera molto più "artefatta". Si sente molto l'influenza del cinema intellettuale francese dell'epoca. Qui la mdp sta quasi sempre appiccicata alle persone (assente una scenografia e uno spazio esterno) e rifiuta il meccanismo del campo-controcampo, creando un'atmosfera di straniamento e introspezione. L'accento è posto sull'indagine dell'interiorità e sulla personalità dei personaggi, piuttosto che sui fatti. Abbondano i simbolismi, le audacità; l'ipocrisia è bandita, tutto è mostrato e dibattuto.
E' quindi un'opera che denuncia in un certo senso la deriva "intellettualizzante" che aveva preso il cinema etico europeo. Piano, piano si tendeva a tralasciare il reale e il quotidiano per dibattere il concetto, l'archetipo, la struttura intellettuale del mondo umano e artistico.
Comunque il film si salva dall'aridità e dalla freddezza; la sofferenza ritratta è vera e sentita. Durante le elucubrazioni intellettuali-artistiche ci sono momenti di intensa poesia e profondità etica. Escono fuori verità e ammissioni che colpiscono e fanno male. La solitudine, il bisogno di affetto, la debolezza, la crudeltà sono espressi in maniera netta in specie di lampi etici che illuminano improvvisamente le scene dialogate. Tra l'altro per la prima volta si mette in dubbio l'utilità dell'arte e tutta l'attività "formativa" umana. Si insinua che forse è tutto lavoro inutile e la gente non sa cosa farsene.
Pur essendo un film difficile e intellettuale alla fine lascia qualcosa, è pur sempre un'esperienza estetica che vale la pena fare.

Tautotes  @  30/05/2010 00:07:46
   8½ / 10
Magnifico come molti dei film di Bergman.

bussisotto  @  25/05/2009 12:21:25
   8 / 10
Un film di grandissimo spessore, complesso ed articolato, che ha il suo punto di forza nelle ottime prove dei quattro attori protagonisti. In un contesto quasi asettico, minimalista, Bergman scava nella psicologia di personalità che forse, non sono quello che sembrano.
Un capolavoro.

wega  @  04/10/2007 09:59:01
   8 / 10
ne ho appena terminata la seconda visione di questo film.Con la prima ho sbagliato come al solito l'approccio,sbagliando,come credo facciano tante persone,ad aspettarsi un qualcosa di idealizzato.Questa seconda visione l'ho affrontata con più attenzione,ponderatezza e in una situazione di completo relax e assente di aspettative.E' un film non facile,anzi..credo molto molto complesso,dove la sceneggiatura è finemente articolata e abbondante di caratterizzazioni che ci dà l'assoluta idea della personalità di ognuno dei personaggi interpretati,come sempre bergman genialmente riesce a fare.Un processo di tipo privato in un'aula ufficio,dove gli interrogatori credo servano a svelarci o farci capire innanzitutto come già detto le complicate personalità degli attori,farci capire che cosa li tieni così uniti,uno indispensabile all'altro,
situazioni delle più tipiche,ipocrisia del rapporto,matrimoni stagni,chiusi sottochiave dalla noia,relazioni di interesse,ma situazioni anche di rassegnazione,magnanimità per alcuni,il desiderio di trasgressione per altri.ambiguità,il giudice stesso è il simbolo dell'ambiguità qui credo,la figura che dovrebbe "risolvere il caso",la figura pulita è invece qui rappresentata come l'ipocrisia della società che condanna gli artisti dei quali la loro arte spesso è fine ad un uso provocatorio,un'ipocrisia che gli farà compiere un'atto di sottomissione fisica,quello stupro,e alla fine fine la società sarà sconfitta,il giudice morirà durante la messa in atto teatrale del "RITO".

Beefheart  @  13/09/2007 16:51:02
   7½ / 10
Film girato per la televisione, quindi essenziale ed economico, volto alla celebrazione dell'arte, anche e soprattutto, a costo dello sconvolgimento della morale. Girato interamente in interni, per altro spesso "vanificati" dall'abbondanza di strettissimi primi piani sui volti dei protagonisti, con quattro attori di numero (più, come pare, una silenziosa comparsa dello stesso regista nei panni di un prete all'interno del confessionale), è facilmente immaginabile come il tutto si concentri su dialoghi molto fitti ed intensi. Attraverso queste battute Bergman ci illustra come l'arte, osteggiata ed oltraggiata dalla censura, sia in realtà destinata ad elevarsi a ruoli ben più significativi che non quello di vittima predestinata e sacrificale dell'umana ipocrisia. L'arte, specificamente teatrale, è quasi una misteriosa ed ambigua magia in grado di stregare anche la più arida delle menti. Un'arte, quella elogiata dal regista, in grado di auto-difendersi, sconosciuta al raziocinio etico, satolla di passione, purissima nel suo apparente delirio. Bergman mette anche in guardia dal giudizio bigotto, dalla mortificazione e dalla frustrazione del pensiero, che anzichè elevare ed aiutare, affossano l'individuo. I temi, ricorrenti ed insistenti, sono: i difficili rapporti sentimentali nella coppia, il rimorso, il senso di colpa, l'indispensabile ingombranza fisica e psicologica della figura femminile, l'ossessione artistica.
Purtroppo, in alcuni passaggi, narrativi e caratterizzativi dei personaggi, il risultato è un po fumoso; soprattutto relativamente alla figura di Sebastian Fisher: personaggio ambiguo e vagamente godardiano (troppo, per i miei gusti) e di Thea Winkelman, altrettanto curioso e, forse, un po eccessivo. Questo ovviamente non compromette la magistrale prova recitativa dell'intero, per quanto numericamente modesto, cast. Personalmente ho trovato il grandissimo Gunnar Bjornstrand perfettamente a proprio agio e convincente; tutti gli altri a ruota.
Il film, nel complesso, non è male; senz'altro non facile, nè immediato. Concettualmente importante, artisticamente valido e stilisticamente affascinante. In tal senso una grande mano la dà la solita raffinata penombra, sapientemente fotografata dal sempre presente direttore della fotografia Sven Nykvist.

Mpo1  @  13/04/2006 00:50:05
   7½ / 10
Non uno tra i titoli più conosciuti di Bergman, ma certamente un’opera di grande interesse.
Un film di impianto teatrale, diviso in una serie di scene che vedono protagonisti quattro personaggi (e poi c’è anche Bergman stesso che appare brevemente nella parte del confessore), mentre lo spazio è scarno ed essenziale.
Bergman ha realizzato questo film come risposta ai problemi avuti con la censura sia come direttore teatrale che per alcuni suoi film. E il film, in sfida alla censura, presenta un paio di scene relativamente scabrose (almeno per quei tempi): un dialogo particolarmente esplicito e la scena finale in cui il “rito” viene eseguito. Il giudice nel film rappresenta la volontà censoria, mentre i tre attori, a detta dello stesso Bergman, rappresenterebbero tre aspetti della personalità dello stesso regista svedese. E questi tre personaggi infatti sono indissolubilmente legati e non possono fare a meno l’uno dell’altro. Il tormentato giudice simboleggia invece l’oppressione delle istituzioni sociali nei confronti dell’arte e della libertà umana in generale, l’assurdità di una società in cui gli uomini diventano inquisitori e crudelmente giudicano e condannano gli altri.

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Ultima risposta 15/04/2006 02.52.14
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Crimson  @  17/12/2005 17:48:53
   7½ / 10
Bergman nel pieno della sua fase più sperimentale e estrema prende molti spunti per la vicenda da "il volto" (1958) ma descrive personaggi e situazioni in modo assurdo, inverosimile.
I quattro protagonisti hanno una personalità malata e interessante: all'inizio sono i tre attori teatrali a polarizzare l'attenzione ma gradualmente emerge la figura del giudice, o meglio, dell'uomo che si cela dietro la professione di giudice.
I tre attori Sebastian Fischer (interpretato da Anders Ek) Thea (Ingrid Thulin) e Hans Winckelmann (l'immancabile Gunnar Bjornstrand) sono tre personaggi di grande interesse (specie il primo), descritti singolarmente con grande incisività (e per far ciò Bergman "si serve" delle scene in cui vengono chiamati a deporre uno alla volta). Con altrattanta fine e consueta profondità sono descritti i torbidi legami tra di essi. Tra personaggi deboli e che traggono la loro forza alimentandosi l'un l'altro, nella loro indissolubile unità malata: la signora Winckelmann (talmente fragile che non riesce a sopportare il peso di parlare da sola con un'altra persona estranea alla "triade") ha una relazione con Sebastian, e Hans nonostante ne sia al corrente non prende alcuna posizione, in quanto è succube. Lo stesso Sebastian, il più estroverso dei tre, è permaloso, irascibile. Restano negli occhi scene di grande impatto come il rogo del letto (una scena pazzesca!) o lo spettacolo finale.
Un film formalmente molto semplice e lineare che osa andare al di là della linea della cosiddetta "normalità" senza peli sulla lingua mediante scene per l'epoca "scabrose".
Tra i vari spunti, mi piace ricordare l'assoluta umanità dei tra attori, che per quanto deviati e bizzarri hanno per me un'accezione positiva, contrapposta alla brutalità (assolutamente anticonvenzionale) del giudice-uomo, inquisitore e inquisito. Quest'ultimo dovrebbe essere una persona dalla moralità super partes ma si rivela eticamente ad un livello ancor più basso di quello degli attori, che tra virgolette sono "giustificabili".
Comunque mi piacerebbe discutere di questo spunto del film a mio avviso interessante.
In conclusione "il rito" è un film breve e "malato", affascinante come tutti i film più eversivi (e in quanto tali spesso vergognosamente oscurati o penalizzati con tagli e manipolazioni) del regista.

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