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Sicuramente "Jeanne Dielman" è un'opera di estrema importanza storica, che principalmente si riversa su due fronti, quello prettamente femminista, in cui la Akerman opera nel suo dipingere una protagonista assorbita ed asservita ad una routine come imposta, che diventa quasi una figura sacrificale per la figura del figlio e fa intuire come lo fosse nei confronti del marito in passato, ma anche per i clienti per cui si prostituisce, il film nel suo lento incedere sembra progressivamente lanciare un grido d'aiuto, che però non verrà ascoltato da nessuno e inevitabilmente detonerà. Allo stesso tempo, parlandone a livello stilistico, questo film della Akerman rappresenta uno dei primi esempi di slow cinema, spianando la strada ad altri grandi autori del futuro quali Bela Tarr - difficile non pensare a "Il cavallo di Torino" nel suo modo di descrivere la stantia quotidianità - e compagnia cantante, da diversi autori orientali ad altri grandi nomi europei.
La Akerman applica un estremo minimalismo, mostrando senza mezzo fronzolo tre giorni di vita di questa donna che vive in un appartamento a Bruxelles, rinunciando ad ogni tipo di virtuosismo, a qualsiasi artefazione del mezzo cinematografico, utilizzando soltanto un'inquadratura a scena, una sorta di campo medio in cui rientra tutta l'azione, che può sembrare di stampo documentaristico, non ci sono carrelli o altro genere di movimenti di macchina, il tutto è orientato verso questa concezione del tempo dell'azione che corrisponde al tempo del racconto, col senno di poi, e mi fa sorridere questa cosa, è qualcosa di molto simile ai videoblog degli influencer odierni - le scene in cui prepara i pasti, principalmente mi hanno ricordato i reels di gente che cucina - ma ovviamente per quanto la Akerman fosse avanti, è una semplice coincidenza, in ogni caso, lo stile accompagna egregiamente la narrazione dell'opera, il non cambiare mai inquadratura, il mantenere una componente visiva ripetitiva alla fine rispecchia la vita della protagonista, nessuna variazione, solo una fissa routine che la ingabbia, dalla mattina quando si sveglia e richiude il letto alle commissioni da sbrigare fuori casa - meno male che la scena agli sportelli non è stata girate nelle poste italiane senò il film sarebbe durato due settimane - ai momenti in compagnia col figlio, altra figura emblematica che mostra un certo distacco dalla stessa madre, uno dei rapporti superficiali che coltiva, ma forse l'ultimo realmente rimasto, lo si vede nelle stesse scene della cena in cui lo richiama per più sere di fila a mangiare senza distrarsi, utilizzando anche i pochi dialoghi per mostrare il background della vita della protagonista.
Gli unici momenti in non narrati per intero sono gli incontri della protagonista, che prostituendosi porta un uomo al giorno in casa, qui la regista ricorre all'ellissi di montaggio, preferendo restare al di fuori della stanza e scandendo il tempo grazie alla luce che cambia subitaneamente. Nel corso del minutaggio sembra esserci una progressiva perdita della routine a cui la protagonista sembra legata, è un evento che si palesa attraverso piccoli dettagli che si sommano, dal caffè venuto male, al vestito macchiato, che finiscono per confluire nel climax finale di estrema ribellione ma che risulta un po' fine a se stessa, dato che la condizione della protagonista è risolvibile solo a monte.
Operazione parecchio coraggiosa, e assolutamente unica, specie per il tempo, un tipo di cinema controcorrente che rinuncia totalmente alla spettacolarità andando sui lidi della pedante routine al punto da far entrare lo spettatore quasi in simbiosi con la protagonista, trasmettendo tutta l'apatia e la disillusione che si porta dietro, una condizione che emerge pian piano e si fa evidente solo quando il puzzle è completo, film straordinario.