Una donna ancora in lutto intraprende un doloroso viaggio emotivo dopo la perdita del suo bambino. Il suo percorso è diverso da quello del suo consorte.
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"Posso chiederle perchè voleva partorire in casa?"- "Volevo che fosse la bambina a decidere quando nascere". Basterebbe questo dialogo (nella scena del tribunale) per far capire quanto mi abbia irritato questo film: dai personaggi ai dialoghi, dalla messa in scena alla regia. Ogni cosa mi ha infastidito, soprattutto la staticità di alcune dinamiche, compresa la tanto decantata scena del parto. Un film che ha pretese autoriali ma che finisce con l'essere stereotipato, inconsistente nel suo evolversi e ridondante. Certamente apprezzabile per il livello interpretativo ma di sicuro è un film che non rivedrò più.
Una donna cerca di superare il lutto per la perdita del suo bambino. Vorrebbe dimenticare, vorrebbe ricominciare a vivere, vorrebbe rialzarsi con tutte le sue forze (e nonostante la fatica) ma a poco a poco viene trascinata in una spirale di odio e dolore da una madre dispotica e passivo-aggressiva che vuole a tutti i costi giustizia (o meglio, vendetta).
Ecco. Le premesse per un ottimo film c'erano tutte, se poi si ci aggiungono perfomance di attrici di prima classe (la promettente Kirby e la stratosferica veterana Burstyn)... Purtroppo il film non mantiene le premesse e, tra mille orpelli da cinemino d'autore posticcio e pornografico, si perde per strada e non riesce mai a colpire fino in fondo. Tanto per dirne una: la Kirby per tutto il film è decisa a non andare a processo (scatenando l'ira funesta della madre), poi all'improvviso c'è un'ellissi temporale e ce la ritroviamo al processo. E per finire, dopo pochi minuti, ritorna di nuovo al punto di partenza, disposta a perdonare l'ostetrica responsabile della morte del neonato. Fine. Si poteva decisamente approfondire tutto meglio, senza concentrarsi su piani sequenza complicatissimi e simbolismi banali (i semini di mela). Il finale, poi, è un'ulteriore prova di mediocrità.
Bei tempi quand'un parto difficile non durava né 24 minuti né 126: in "Ordet" (1955) Dreyer lo risolve fuori campo sintetizzandolo con una striminzita linea di dialogo, "He's lying in the tub, in four pieces" ("Sta giacendo nel mastello, in quattro pezzi"). Bei tempi, circa un secolo fa, quand'ancora metà dei figli moriva prima dei genitori. Bei tempi quand'il cinema poteva permettersi di non essere sempr'e comunque una compiaciut'autoriflessione borghese (oggi esiste più un pubblico estraneo a tale target?). Poi, da Bergman al Moretti Palma d'oro a Cannes 2001 fin'alla recente scempiaggine di Baumbach, solo tearjerker movies per facoltosi "benpensanti" (?).