Una donna ancora in lutto intraprende un doloroso viaggio emotivo dopo la perdita del suo bambino. Il suo percorso è diverso da quello del suo consorte.
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"Posso chiederle perchè voleva partorire in casa?"- "Volevo che fosse la bambina a decidere quando nascere". Basterebbe questo dialogo (nella scena del tribunale) per far capire quanto mi abbia irritato questo film: dai personaggi ai dialoghi, dalla messa in scena alla regia. Ogni cosa mi ha infastidito, soprattutto la staticità di alcune dinamiche, compresa la tanto decantata scena del parto. Un film che ha pretese autoriali ma che finisce con l'essere stereotipato, inconsistente nel suo evolversi e ridondante. Certamente apprezzabile per il livello interpretativo ma di sicuro è un film che non rivedrò più.
Primi 30 minuti pazzeschi, un parto girato come un thriller, la Kirby semplicemente incredibile. Poi scivola noiosamente via verso il finale, in modo un po' pretenzioso e francamente poco interessante. Molto brava anche Ellen Burstyn, come al solito.
La prima f*ttutissima mezz'ora. Che angoscia, che suspance. Da storia del cinema. Vanessa Kirby tiene la scena magistralmente, pazzesca. Affrontare una perdita di questo tipo non è ovviamente semplice ma tutta la palette di emozioni della Kirby si trasmettono su un Leboeuf che fa da compagno anche se ha ovviamente una sua personalità. Ma è lei il personaggio predominante. Stare insieme ma accusarsi a vicenda, cercare un motivo ma poi cercarne un altro. Certo, il dibattito su sepoltura o donazione alla scienza, provvedimenti legali o meno è interessante ma dura troppo ed arriva ad essere quasi estenuante (a parte la scena con la madre di lei che racconta la sua nascita che è meravigliosa). Poi arriva il processo e riviviamo quella mezz'ora. E le foto. Un epilogo drammatico se si pensa alla coppia, un epilogo in cui lei alla fine può sorridere. Ammesso che quella bambina su quell'albero di mele esista veramente o sia solo frutto di una sua proiezione e di cosa poteva essere. Il Manchester by the sea del 2021.
Una donna cerca di superare il lutto per la perdita del suo bambino. Vorrebbe dimenticare, vorrebbe ricominciare a vivere, vorrebbe rialzarsi con tutte le sue forze (e nonostante la fatica) ma a poco a poco viene trascinata in una spirale di odio e dolore da una madre dispotica e passivo-aggressiva che vuole a tutti i costi giustizia (o meglio, vendetta).
Ecco. Le premesse per un ottimo film c'erano tutte, se poi si ci aggiungono perfomance di attrici di prima classe (la promettente Kirby e la stratosferica veterana Burstyn)... Purtroppo il film non mantiene le premesse e, tra mille orpelli da cinemino d'autore posticcio e pornografico, si perde per strada e non riesce mai a colpire fino in fondo. Tanto per dirne una: la Kirby per tutto il film è decisa a non andare a processo (scatenando l'ira funesta della madre), poi all'improvviso c'è un'ellissi temporale e ce la ritroviamo al processo. E per finire, dopo pochi minuti, ritorna di nuovo al punto di partenza, disposta a perdonare l'ostetrica responsabile della morte del neonato. Fine. Si poteva decisamente approfondire tutto meglio, senza concentrarsi su piani sequenza complicatissimi e simbolismi banali (i semini di mela). Il finale, poi, è un'ulteriore prova di mediocrità.
Il film parte in maniera magistrale con i primi 30 minuti che rappresentano una sequenza unica, ovvero la scena del parto, dove c'è condensata una regia ottima, delle prove attoriali intense (su cui primeggia Vanessa Kirby, meritata Coppa Volpi 2020 a Venezia), e soprattutto un livello di tensione fortissimo che si sedimenta sullo spettatore, fino quasi a diventare insoportabile per chi intuisce il dramma a cui si sta andando incontro.
Da quel momento in poi il film cambia ritmo, ed è composto da una serie di flash, senza una trama vera e propria, della vita della protagonista Martha. Si cerca, parafrasando il titolo, di rimettere insieme i pezzi di vita di questa donna, che metabolizza il lutto con una sorta di maschera di assenza di emozioni, una rabbia inespressa, una frustrazione che vediamo poi impattare sul suo rapporto di coppia, sulle dinamiche con la sua famiglia, in particolare con sua madre, della quale intuiamo un rapporto conflittuale già precedente al parto.
In pratica Pieces of a Woman, nell'ora e mezza successica alla scena del parto, diventa un film su dinamiche personali e familiari successive a un evento drammatico. In effetti non ci sono picchi di originalità nell'idea di base, nè nello svolgimento della trama, nè nelle riflessioni che ne scaturiscono. Ma tutto è trasmesso con una intensità molto efficace e non scadendo mai in patetismi scontati.
Bei tempi quand'un parto difficile non durava né 24 minuti né 126: in "Ordet" (1955) Dreyer lo risolve fuori campo sintetizzandolo con una striminzita linea di dialogo, "He's lying in the tub, in four pieces" ("Sta giacendo nel mastello, in quattro pezzi"). Bei tempi, circa un secolo fa, quand'ancora metà dei figli moriva prima dei genitori. Bei tempi quand'il cinema poteva permettersi di non essere sempr'e comunque una compiaciut'autoriflessione borghese (oggi esiste più un pubblico estraneo a tale target?). Poi, da Bergman al Moretti Palma d'oro a Cannes 2001 fin'alla recente scempiaggine di Baumbach, solo tearjerker movies per facoltosi "benpensanti" (?).
Un po' pesante da seguire per via del senso di angoscia che trasmette fin dai primi minuti e reggerla per quasi due ore viene un po' a noia. E' comunque, da apprezzare in quanto pur non avendo chissà quale spunti o guizzi di originalità, non scivola nel drammone sentimentale o nel banale, Vanessa Kirby perfettamente calata del ruolo, la sua interpretazione spicca facendo sembrare tutto gli altri giusto personaggi di contorno e "cornice" del dramma personale che sta attraversando.
Un film ben fatto che racconta un tema estremamente drammatico e che facilmente può scadere nel sentimentalismo (cosa che qui non accade). Minuziosa la prima parte. Ottima prova della Kirby.
Un film che ha come centro focale l'interpretazione della Kirby ed un incipit efficace nel descrivere un evento che da gioiso diventa tragico. Da quell'evento, così minuziosamente descritto si innesca una reazione a catena che coopisce la coppia e l'entourage legato ad essa. Pezzi che appunto la donna deve ricomporre dopo la perdita di quell'equilibrio ritenuto solido. La performance della Kirby è degna della Coppa Volpi vinta per lo spettro emotivo che riesce a trasmettere. NOn è da meno comunque una Ellen Burstyn matriarca dominante e dominatrice. Se la tematica non offre spunti particolarmente originali, bisogna comunque ammettere l'assenza di qualsiasi momento sentimentalistico cui poteva incorrere un film del genere. Un merito non da poco.