Un ex marine viene coinvolto suo malgrado nel tentativo di stabilirsi su di un pianeta particolarmente ricco di specie vegetali ed animali e di sfruttarne le grandi risorse: quando però la razza indigena si ribellerà a questo colonialismo cosmico, l’uomo passerà dalla loro parte per guidarne la rivolta.
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"Avatar" esibisce due evidenti paradossi: il primo è che questo film hollywoodiano, candidato a una pletora di premi Oscar (anche se poi ne ha vinti soltanto tre), è uno dei film più profondamente anti-americani che mai si siano visti (dal momento che qui i cattivi sono senza dubbi di sorta i marines, braccio armato della politica imperialistica statunitense anche al di fuori della nostra galassia); il secondo è che Avatar rischia di fare al cinema d'arte, al cinema d'autore, quello che nel film l'esercito americano fa al pacifico popolo dei Navi, e cioè sterminarlo, estinguerlo. I cinefili nostalgici è bene che si preparino, perché il cinema del futuro sarà sempre meno quello dei Dardenne, dei Kaurismaki e dei Rohmer, e sempre più quello degli effetti speciali e del 3D. D'altronde, cosa poteva fare l'industria cinematografica di fronte all'emorragia di spettatori e incassi, alla pirateria e al download libero, se non quello di rendere la visione al cinema nuovamente preferibile a quella dello schermo casalingo, grazie a massicci investimenti sulla tridimensionalità e all'uso di un paio di occhialini in grado di stravolgere in meglio la percezione delle immagini? Non si può quindi rimproverare nulla a Cameron, tanto più che il film scorre via per due ore e quaranta minuti che è un piacere e la sfrenata fantasia dei realizzatori ci permette di entrare in mondi nuovi e affascinanti, dove nulla – uomini, lingua, animali e piante – è uguale a ciò che conoscevamo prima. Certo, la storia è arcinota (un mix tra "Balla coi lupi", "Mission" e perfino "Terminator", con un omaggio anche ad "Alien" – con la presenza di Sigourney Weaver – e musiche simil-Titanic), i buoni e i cattivi si riconoscono fin da subito (senza ambiguità e complicazioni psicologiche) e il ritmo è più quello di un videogioco che quello di una pellicola classica. Ma quello che sembra contare non sono le coordinate critiche tradizionali (sceneggiatura, fotografia, montaggio, recitazione degli attori), bensì la continua meraviglia per gli occhi sciorinata in sovrabbondanza con inusitata perizia e indubbia intelligenza.