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Ci voleva un videogame (di cui non so nulla essendo io rimasto a Double Dragon in fatto di videogiochi, quando non serviva una console ma bastavano un bar ed una moneta da duecento lire - e modestamente con duecento lire io Double Dragon lo finivo!) per far resuscitare Christian Slater dal limbo degli obliati.
Il nostro, canottiera nera e cappotto svolazzante (ci si chiede che razza di clima possa esserci in un posto in cui si va in giro abbigliati in quel modo), ci prova pure a calarsi nei panni del detective del paranormale, inquieto e fascinoso come troppi ne abbiamo visti, finendo però col collezionare solo una serie infinita di desueti cliché.
Non contenti dell'attore protagonista gli affiancano anche Stephen Dorff, il quale, in fatto di attori-bufale, non scherza per niente. Tra i due s'instaura un'evidente competizione maschia, silenziosa ma palpabile all'interno di ogni fotogramma, sul chi porta meglio la barba incolta. Dorff, capello biondo lungo e mesciato, è senza dubbio avvantaggiato e forse è proprio per questo che il finale è riservato tutto per lui, mentre il povero Slater, con la faccia di un Paolo Vallesi malinconico e triste, non può nulla contro il ben più aitante rivale.
La trama, tanto farraginosa e improbabile da poter essere ideata solo da qualcuno in preda a incubi notturni dovuti ad un pasto eccessivamente pesante, presenta al suo interno di tutto e di più: "Indiana Jones", "X-files", "Pitch Black", "Alien", creature della notte, zombi, antiche maledizioni, mondi paralleli, civiltà scomparse, orfanotrofi sinistri e tutta quell'inutile sbobba col mostro che si palesa nel finale. S'intuisce il tentativo di mantenere fede allo spirito del gioco ma se si decide di fare un film allora bisogna tenere presente che le logiche cui rispondere sono un tantino diverse rispetto a quelle di un videogioco; ad esempio se il secondo non necessita di una trama il primo purtroppo sì, ed inoltre lo sparare all'impazzata contro ogni genere di mostro non può definirsi "trama".
Diretto da Uwe Boll, già autore di "House of the death", il film si compone quasi esclusivamente di scene madri. Ma il clou si raggiunge quando Christian Slater entra in casa, si toglie il giaccone, lo butta per terra, si toglie la canotta rimanendo a torso nudo che neanche Costantino, si sfila la pistola, si slaccia la cintura, si getta sul letto sussurrando tra sé e sé "sono stanco", "sono stanco". Non ci vengono risparmiati neppure lui e lei che fanno l'amore su "7 seconds" di Youssun 'Door.
E così tra sequenze indimenticabili, dialoghi d'antologia (lui a lei "ho dovuto uccidere John, era uno di loro, lo controllavano." Lei a lui: "allora non hai avuto scelta"), creature soprannaturali che s'arrendono davanti ad una porta chiusa (neppure a chiave), vecchi curatori di musei che tengono imprigionato nel loro ufficio un mostro bavoso per arpionarlo di tanto in tanto e iniettarsi nelle vene il suo sangue (è tutto vero!), nel più assoluto caos stilistico e semantico, il film si avvia a candidarsi come uno dei più grossi "scult" degli ultimi tempi, da recuperare doverosamente negli anni a venire.
Voto: 1
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Recensione a cura di mirko nottoli - aggiornata al 08/08/2005
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