Recensione a scanner darkly regia di Richard Linklater USA 2006
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Recensione a scanner darkly (2006)

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locandina del film A SCANNER DARKLY

Immagine tratta dal film A SCANNER DARKLY

Immagine tratta dal film A SCANNER DARKLY

Immagine tratta dal film A SCANNER DARKLY

Immagine tratta dal film A SCANNER DARKLY
 

Se la società degli anni '70 descritta da Philip K. Dick nel suo romanzo del 1977  era contorta, paranoica, spietata e corrotta, quella del film di Linklater, aggiornata ai nostri giorni, non è da meno, e forse è anche peggiore.

La completa sfiducia nelle istituzioni, la paura, o meglio la paranoia serpeggiante, della repressione come strumento per limitare le libertà sono le tematiche predilette dallo scrittore e dal regista Linklater, che segue le gesta dei tossici con uno stile allucinato ma allo stesso tempo lucido, come se la cinepresa fosse l'occhio di un oscuro scrutatore che li osserva, sballato, ma impietoso.

E la paura è lì, presente in ogni dove, non solo nella casa del protagonista Bob Arctor, né nell'inquietante comunità di recupero Nuovo Sentiero, ma nelle strade, al supermercato o perfino nella stanza da letto. Qualcuno ci osserva, dunque. E Richard Linklater, autore dell'adattamento per lo schermo, ha avuto la felice idea di aggiungere del nuovo a questa già fantastica storia.
Se l'originale romanzo era ambientato nel 1992, il film si svolge oggi. Bob e la sua donna non possono scambiarsi qualche battuta al cellulare, sono già stati intercettati e individuati in un ufficio della polizia. Gli scrutatori conoscono l'identità di qualsiasi persona, ma hanno perso la propria, una speciale tuta "disindividuante" li fa essere tutti e nessuno.

Il povero Arctor, agente della narcotici infiltrato in un gruppo di tossici, è nello stesso tempo il poliziotto Fred e il drogato Bob, nessuno è più nessuno, neanche gli insospettabili, come vedremo alla fine.
Richard Linklater si prende qualche libertà nella sua trasposizione, qualche fan potrebbe storcere il naso infatti, già dall'inizio due personaggi del libro vengono accorpati e divengono uno solo, ma è pur vero che il cinema ha altri linguaggi e che un romanzo del genere, forse il più corposo dell'opera del maestro della fantascienza, avrebbe avuto bisogno di non meno di tre ore di film per essere sviluppato in ogni minimo spettacolare dettaglio.

"Questo è il mio capolavoro", disse Dick una volta, e come si fa a non credergli, guardando il film di Linklater anche chi non ha avuto il piacere della lettura può meravigliarsi di fronte all'opera di tal maestro.

Perché, se non si fosse ancora capito, il film del cineasta di Houston funziona. Il film è grande, e la tecnica usata dal regista già nel suo precedente "Waking Life", chiamata "Interpolated Rotoscoping", è una gioia visiva. Gli attori ripresi dal vero sono stati successivamente "ricalcati" al computer da un gruppo di disegnatori capitanati da Bob Sabiston.
Quattro anni di post-produzione per rendere sullo schermo una storia altrimenti infilmabile. Solo così possiamo renderci conto di cosa deve aver provato lo scrittore al tempo della pubblicazione del romanzo, quando, come recita una didascalia, "alcune persone sono state punite eccessivamente per quello che hanno fatto..., per un certo lasso di tempo noi tutti siamo stati per davvero felici..., ma questo lasso di tempo è stato terribilmente breve e la punizione che ne è seguita è stata al di là di ogni immaginazione...".

Richard Linklater riesce a portarci nella mente di tre paranoici assuefatti da una nuova droga, la Sostanza Morte, che né il governo né tanto meno la polizia riescono a debellare. La popolazione si divide in tossici e in persone "per bene", e tutto questo avviene alla luce del sole, non c'è nulla che, a prima vista,  possa farci sospettare del marcio che si annida negli ambienti alti della contea di Orange, in California. Eppure è una parabola sull'America, così come lo era ieri, così come lo è oggi.

Ad un certo punto, nelle sue deliranti visioni, Bob Arctor riesce quasi ad inventarsi un passato che non c'è mai stato, una classica famiglia, di quelle sedute attorno al caminetto, tutta per sé. Ma basta poco per risvegliarsi, una normale botta in testa e Arctor sente una nausea particolare, una nausea rivolta a tutto ciò che lo circonda. E i suoi folli amici/nemici finisce quasi per amarli, forse il tossico è pazzo, arrogante e tremendamente malato, ma normale, è un uomo in poche parole, come per un attimo possiamo capire nel discorso iniziale che Arctor poliziotto tiene ad una folla di "perbene", unico punto alla quale Linklater avrebbe dovuto dare più spazio.

Anche l'odioso Jim Barris, il più malato e paranoico di tutti, finisce per essere una vittima, il suo personaggio è alla fine il più disperato, miserabile e drammatico. Un uomo che, per colpa della sua superbia allucinata, finirà per ingabbiarsi da solo.
Il marcio infatti non è Jim Barris ma chi, protetto e nascosto nei meandri più bui del perbenismo ipocrita, da alla morte (la Mors ontologica scriverà Dick) la possibilità di sorgere dalla terra.

Anche quelli che nella narrazione dovrebbero essere i personaggi positivi, gli uomini della narcotici, sono solo pedine. Rischieranno la propria vita, si faranno ammazzare, perderanno tutto, compresa la ragione, ma senza che la società gli renda un ringraziamento. In fondo, come viene detto in una battuta dal sapore amarissimo, "nessuno li ha obbligati".

La pellicola ha poi un altro punto a suo favore: trova nei personaggi dei corrispettivi in carne ed ossa a dir poco straordinari. Se Keanu Reeves, ormai divenuto volto della fantascienza, si cala perfettamente nelle doppie vesti di Fred e Bob Arctor, la vera sorpresa è il redivivo Robert Downey Jr., il suo Jim Barris infatti avrebbe fatto felice Dick. Aiutato nell'edizione italiana dal doppiaggio magistrale (ma per questo film tutti i doppiatori hanno svolto un ottimo lavoro) di Roberto Pedicini, Downey Jr. si  cala ottimamente nel ruolo dell'uomo più schizzato della California del futuro.
I gesti, i piccoli movimenti, le espressioni facciali, il modo di parlare repentino e il fare intellettuale, tutto quello che l'attore fa ci restituisce sullo schermo le visioni contenute nelle pagine scritte nel '77. Un lavoro assolutamente encomiabile dunque, e infine non vanno dimenticati neanche gli sforzi di Woody Harrelson, anche lui un perfetto Ernie Luckman, e Winona Ryder, quasi irriconoscibile sotto il disegno digitale.

Il caso, o forse una scelta consapevole, ha voluto che gli attori principali abbiano passato, nella loro vita privata, più tempo con gli spacciatori di Los Angeles che con registi e attori. Ma al di là di questi aneddoti quella che si vede in "A scanner darkly" è pura recitazione di alto livello.

La mano del regista texano d'altronde si vede, e Linklater non è solo un buon direttore d'attori ma anche uno dei migliori registi indipendenti della generazione di Wes Anderson e Kevin Smith, non tanto anagrafica ma cinematografica (ricordate "Dazed and Confused"?).

L'operazione infatti ha un tocco prettamente intellettuale e i molti interrogativi che vengono posti hanno sapore filosofico (il tema del doppio, per dirne uno), cosa che nell'opera scritta si ritrova comunque in gran quantità, dai frequenti passi del Faust di Goethe riportati allo stesso titolo, citazione da San Paolo.
Chi ha visto i precedenti lavori del regista non faticherà a riconoscere il suo stile, perché di certo non gli si può negare la nomina di autore e creatore di tematiche e stili all'interno del cinema indipendente americano; basti pensare che il titolo di uno dei suoi primi film, "Slacker", è entrato a far parte del vocabolario americano come modo di dire.

Se la fantascienza autentica è quella di Dick  è vero anche che "A scanner darkly - Un oscuro scrutare" di Richard Linklater non solo gli rende fede ma è anche, e soprattutto, un omaggio grandioso ad un genere spesso dimenticato o relegato alle più insulse produzioni per bambini, preso in considerazione solo per lo sfruttamento commerciale. Questa pellicola rende alla fantascienza quella funzione che gli è ancora negata e lo eleva da genere considerato minore a genere di riflessione, perché una parabola sull'America come questa può funzionare meglio di qualsiasi documentario.

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Recensione a cura di matteoscarface - aggiornata al 26/10/2006

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