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Anno Domini 2007,
Quando l'italico popolo era ormai rassegnato ad assistere per il resto della propria esistenza mortale a serie televisive narranti le vicende di santi, chierici e gendarmi, ecco giungere un essere pisciforme color dell'oro, venuto a squarciare le tenebre e indicare la retta via. Egli si fa chiamare...
Boris. Come Becker. Ultimo esponente di una stirpe di pesci rossi battezzati in onore dei migliori tennisti della sua era. Principale occupazione: animale da compagnia e portafortuna di Renè Ferretti (Francesco Pannofino), onesto mestierante della regia costantemente costretto a scendere a compromessi per portare a casa la pagnotta. E' lui il principale protagonista e mattatore della serie televisiva targata Fox Italia che ha preceduto l'uscita di questo film.
Ma di cosa parla "Boris" (la serie)? Sostanzialmente si tratta di satira del dietro le quinte della produzione televisiva italiana, raccontato tramite una rappresentazione caricaturale (ma allo stesso tempo non troppo distante dalla realtà) dei vari personaggi che popolano questo mondo, dediti a realizzare prodotti di qualità volutamente scadente in nome della dea audience e del dio denaro.
Tutto comincia con l'arrivo sul set di Alessandro (Alessandro Tiberi), aspirante stagista alla regia carico di belle speranze che non andrà oltre all'eseguire gli ordini di chiunque gli capiti a tiro, portare caffè e ricevere insulti. Ovviamente lavorando pure gratis.
Insieme a lui lo spettatore fa subito la conoscenza degli altri membri della troupe tra i quali spiccano (oltre al già citato Ferretti-Pannofino): Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti) la star della soap, tanto egocentrico quanto incapace; Corinna Negri (Carolina Crescentini), la "cagna maledetta", corrispettivo femminile di Stanis; Duccio Patanè (Ninni Bruschetta), il direttore della fotografia cocainomane, maestro dello "smarmellamento" e dell'"apri tutto"; Arturo Biascica (Paolo Calabresi), il capo elettricista dai modi bruschi e dall'animo travagliato, tifoso sfegatato della Roma; Lorenzo (Luca Amorosino), lo stagista schiavo di fotografia e Arianna Dell'Arti (Caterina Guzzanti), l'aiuto regista, uno dei pochi personaggi "normali", tra l'altro ispirato alla vera aiuto regista della serie b.
Una menzione a parte la meritano le figure forse più geniali in assoluto: gli sceneggiatori (Valerio Aprea, Massimo De Lorenzo, Andrea Sartoretti). Questo trio, che lo spettatore potrà vedere in azione in una serie di intermezzi esilaranti disseminati nei vari episodi, è la rappresentazione perfetta degli scansafatiche senza talento che cercano di tirare a campare con il minor sforzo possibile. Lungi da loro il voler ricercare la benché minima originalità o plausibilità nelle loro opere, talmente stereotipate che espressioni come "basito", "preoccupato" e "perplesso" hanno tutte un tasto assegnato sulla tastiera del loro computer.
Dopo tre stagioni televisive nelle quali "Boris", pur restando un prodotto sostanzialmente di nicchia, riesce a raccogliere un discreto successo e a diventare una serie di culto con un buon numero di fan, si tenta il salto verso il grande schermo.
Quando si effettua un'operazione di questo tipo è facile incappare in due principali errori agli antipodi tra loro: fare un film fruibile soltanto per chi ha già seguito la serie e incomprensibile per tutti gli altri oppure renderlo accessibile ad ogni fascia di pubblico andando a snaturare la struttura e i personaggi originari (come è accaduto ad esempio per il film dei Simpson, giusto per citare una trasposizione Tv-cinema piuttosto recente). Fortunatamente il progetto è stato affidato al collaudatissimo trio di registi-sceneggiatori (quelli veri, non i cialtroni di cui sopra), composto da Giacomo Ciarrapico, Luca Vendruscolo e Mattia Torre, che hanno seguito la serie sin dall'inizio e sono riusciti a trovare un giusto equilibrio.
I fan più accaniti potranno senz'altro notare la mancanza di qualche celebre tormentone però verranno ripagati dalla presenza di tutti i personaggi ai quali erano più affezionati, compresi quelli che nell'ultima stagione avevano diradato la loro presenza. I neofiti invece saranno perfettamente in grado di inquadrare i protagonisti quel tanto che basta per potersi godere la storia e magari verrà loro voglia di approfondirne la conoscenza andandosi a recuperare quel che si erano persi.
Evitato anche l'effetto "episodio lungo", tipico di quando ci sono poche idee e le si deve dilatare il più possibile per coprire la durata di un lungometraggio. Sicuramente stavolta il materiale non mancava, basti pensare che il primo montaggio superava addirittura le tre ore.
Andiamo ora ad analizzare la storia più nel dettaglio.
Già nelle primissime scene ritroviamo il nostro Renè Ferretti dove lo avevamo lasciato, cioè a dirigere fiction di terz'ordine seguendo le imposizioni della rete che gli ha affidato l'incarico. Ma a tutto c'è un limite: girare al rallentatore una scena in cui il giovane Ratzinger corre felice in un prato per celebrare la scoperta del vaccino antipolio è troppo anche per lui. Così molla tutto e si ritrova disoccupato per poi ritornare in pista con un ambizioso progetto tra le mani: fare un film per il cinema tratto dal libro "La casta", uno dei più grandi successi editoriali degli ultimi anni. Inutile dire che fin da subito inizieranno i problemi. Infatti Renè si troverà invischiato in un mondo elitario che finora gli era estraneo, fatto di produttori enigmatici e intellettualoidi, attrici nevrotiche tipiche di un certo cinema italiano impegnato (a Margherita Buy saranno fischiate le orecchie), sceneggiatori e direttori della fotografia dalle velleità artistiche e con richieste fuori da ogni logica di budget, coi quali proverà a sostituire la sua solita troupe nella speranza di realizzare per una volta un'opera di qualità.
Ma tutto ciò si rivelerà pura utopia, il progetto naufragherà miseramente e Ferretti tornerà con i suoi vecchi compagni di avventure per trasformare quel che aveva già girato in un cinepanettone: il terribile "Natale con la casta" che, manco a dirlo, sbancherà i botteghini. Particolarmente significativo in questo senso è il dialogo tra il nostro regista e un famoso attore di teatro incontrato sul set di un altro film dello stesso genere:
"Massimo, ma te non facevi il teatro, quello serio?"
"Ho fatto Ronconi, ho fatto Sorrentino... e mo' ho fatto i sordi."
Amen. A quanto pare l'unico modo per avere veramente successo sembra essere quello di dedicarsi alla comicità di grana grossa mettendo da parte tutto quel che richiederebbe un minimo di impegno cerebrale da parte dello spettatore.
Mettendola così però questo potrebbe sembrare soltanto un racconto amaro e malinconico che mette in evidenza con pessimismo la situazione dell'industria cinematografica nostrana. In parte lo è ma bisogna mettere in chiaro che questo è anche e soprattutto un film che fa ridere. Non sorridere a denti stretti. Ridere, cosa sempre più rara nelle commedie italiane degli ultimi anni.
Per questi motivi dopo la visione può capitare di rimanere con uno stato d'animo combattuto tra due opposti: quello divertito di chi si è appena fatto diverse risate e quello del buon Renè mentre guarda fissamente lo schermo sul quale è proiettata la sua ultima fatica con la triste consapevolezza che davvero "alla fine l'unica cosa seria in Italia è la ristorazione".
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Recensione a cura di Dexter '86 - aggiornata al 26/07/2012 12.22.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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