Voto Visitatori: | 8,00 / 10 (2 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 8,00 / 10 | ||
"Chi è cchiù felice 'e me" rappresenta un'altra tappa importante nella carriera teatrale di Eduardo De Filippo. Ambientata in campagna (una rarità per le commedie eduardiane, solitamente localizzate in città con esponenti di piccola o media borghesia) e lo scarto tra città e campagna rimane uno dei motivi centrali della commedia. Si fa inoltre sempre più chiara la presenza di un certo tipo di crudeltà verso i protagonisti, dello sberleffo che li coglie a partire sin dal titolo, che come vedremo non è solo il tormentone con cui il protagonista tenta di convincersi che tutto gli vada bene, ma anche l'amara constatazione della sua inesattezza.
Vincenzo è un piccolo possidente terriero a cui davvero si può dire non gli manchi nulla: ha una bellissima moglie laboriosa e previdente (come non mancano di notare gli amici gelosi), ha una bella casa, è agiato e non corre rischi. Ci tiene a confermarlo lui stesso agli amici, cui rifiuta il piacere di un affare perché troppo rischioso. In realtà lui si avvia solo verso la sicurezza, non vuole che gli manchi nulla e addirittura (in uno dei momenti più umoristici) confida ai compagni che perfino il rosolio da offrire agli ospiti è razionato secondo i giorni, per non creare disequilibrio nei conti di fine mese.
Se quindi inizialmente la previdenza di Vincenzo ce lo fa apparire come una persona normale come tante, si capisce dalla sua esagerazione che in verità così non è e la sua è una visione estremamente limitata e ottusamente borghese. Così come ignoranti e limitati sono i borghesi di campagna, i "compari" che lo vanno a trovare dopo un viaggio a Napoli. E' il momento in cui Eduardo illustra il contrasto città - campagna ma senza idealizzare quest'ultima come faceva Rousseau, bensì ponendola sotto una luce ambigua, ristretta, dove i villici fanno brutte figure a casa dei conoscenti cittadini, non conoscendo le usanze più comuni (l'acqua per lavarsi le mani a tavola è un occasione per fare brutta figura). Giunti alla fine del primo atto, che serve ad illustrare la sicurezza di Vincenzo e la devozione della bella moglie Margherita, Vincenzo continua a ripeterselo tra sé, come un mantra o una preghiera da recitare: "Noi stiamo bene, che ci può succedere a noi, non manchiamo di nulla". E nel momento esatto in cui la preghiera finisce non viene esaudita, anzi accade lo sconvolgimento interno e il ribaltamento della situazione: uno sconosciuto si introduce in casa di Vincenzo, lo obbliga ad aiutarlo perché inseguito dalla polizia dopo aver sparato ad un tale e Vincenzo, suo malgrado, lo nasconde in casa.
Finisce il primo atto in sospeso: sarà da questo momento in poi che la commedia acquista un significato ancora più sarcastico.
Il secondo atto si apre con la situazione mutata. Vincenzo e consorte non vanno più d'accordo come abbiamo visto; è bastato il tempo di due mesi intercorsi tra un atto e l'altro. A nulla valgono i segnali che Nicola, un contadino tuttofare abbandonato tre volte dalla moglie (e con due figli non suoi), lancia al padrone; lui non sta a sentire, eppure ad un certo punto quasi si arrende all'evidenza delle chiacchiere che girano in paese, malevole e spettegolanti: quelle che dicono di aver visto donna Margherita passeggiare mano nella mano con Riccardo, l'uomo che si introdusse mesi prima in casa di Vincenzo e che adesso ha chiarito la situazione e approfitta della conoscenza col marito per approcciarsi con la moglie. Da notare come le malignate invidiose sul protagonista e la moglie siano frutto di un'abile farsa imbastita da Eduardo: i provinciali non suscitano simpatia ma una sorta di fastidio per questo loro godimento sulle disgrazie altrui (tranne Nicola, ruolo che a teatro fu originariamente di Peppino e qui è di Enzo Cannavale, speculare rovescio di Vincenzo anche se lui è preso in giro in quanto un poveraccio ingenuo e bonario, Vincenzo lo è in altra maniera).
Dal momento in cui vediamo i dubbi di Margherita, scontrosa e angosciata senza un perché, noi spettatori capiamo che qualcosa dentro di lei sta combattendo; caccia a parole il pretendente don Riccardo, ma ne accetta le calze di seta e il rossetto che lui le porta dalla città (ancora il contrasto città-campagna, con la sofisticatezza dei marchingegni per donne che la campagna non conosce, e poi col rossetto nelle ultime scene scambiato addirittura per una bomba da Vincenzo e amici). Ambiguo è il loro rapporto fino al finale rivelatore, dove Vincenzo raduna una folla per lodare la moglie di cui è sicuro, mentre a parole caccia Riccardo esaltando il ruolo di moglie obbediente, e improvvisamente questa si getta tra le braccia di lui rivelando il vero desiderio, del tutto opposto, e scatenando i paesani che tentano in tutti i modi di entrare in casa mentre Vincenzo si barrica dentro, perduto l'onore da vero fesso e ingenuo che tenta un'ultima strenua difesa.
Ipocrisia vera, quella mostrata da De Filippo allora in questa commedia acre, rappresentata nel 1964 in televisione nel secondo ciclo per la RAI. Il contrasto è tra il dire e il fare, come sottolinea Anna Barsotti nel volume "Cantata dei giorni pari": i protagonisti ripetono il loro stato borghese di persone ligie al dovere, con un ruolo da rispettare (sia esso economico e di felicità, come Vincenzo, o di moglie onesta come Margherita) ma di fatto si smentiscono da soli in piccoli e grandi gesti, fino al finale stupendamente esplicativo in cui tutta la felicità di Vincenzo si riduce ad una facciata, mentre si barrica in casa dagli sguardi indiscreti con la moglie traditrice e l'amante di lei. Ed è da lodare la scelta di Valeria Moriconi, che De Filippo scelse nonostante la totale ignoranza di lei sull'accento campano; lui stesso le consigliò di sporcare il suo italiano, e il risultato è ottimo: per un ruolo che originariamente fu di Titina, il suo è perfetto così com'è. Il fatto che appaia poco campagnola e quasi non appartenente a quel mondo è un qualcosa in più all'adattamento televisivo, che ne denota ancora meglio il carattere di eterna indecisione nel secondo atto, mentre la solarità del primo non fa presagire quello che poi accadrà.
Riccardo è Antonio Casagrande, imprudente e sprezzante del pericolo. Un climax geniale è dato dal discorso a tre, in cui Riccardo si rivolge a Margherita con in mezzo Vincenzo, che equivocamente non capisce nulla e crede l'uomo stia parlando con lui.
E allora assumono un significato patetico le parole di Vincenzo, come si prevede, quando gli altarini si scoprono anche a causa sua.
"Care amice, 'o destino ce 'o facimmo cu' 'e mmane noste, io me cuntento d''o ppoco e so' felice"
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Recensione a cura di elio91 - aggiornata al 17/01/2012 15.42.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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