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Una storia importante e coraggiosa è ciò che emerge dalla visione dell'ultima opera di Ron Howard.
L'importanza sta nell'avere raccontato in faccia allo spettatore la cruda realtà della Grande Depressione negli States, quando i giorni che seguirono al crollo della borsa di New York misero sul lastrico centinaia di famiglie. Il coraggio è quello di aver affrontato un film sulla boxe con un lieto fine, essendo la storia del pugile James J. Braddock tratta da una storia vera, conclusione piuttosto fuori moda nei drammoni hollywoodiani odierni.
Il film, nonostante non sia sempre convincente, come nell'assalto ai furgoni porta-viveri, scorre perfettamente lungo le due ore e mezza di narrazione, coprendo un'arco temporale che va dal 1929 al 1935. Senza il respiro epico, né fumettistico di alcune sue precedenti, la pellicola dell'ex (ha 51 anni) golden boy di Happy Days, Ron Howard, affronta in maniera toccante il tema della sopravvivenza e mai è stato tanto azzeccato il sottotitolo italiano Una ragione per lottare, perché in quegli anni sfamare la propria famiglia era l'unica priorità, anche combattendo su un ring.
Straordinari come al solito, ormai non ci sono più aggettivi, il protagonista Russell Crowe (convincente al punto da chiedersi come al termine delle riprese abbia potuto riprendere la vita multimiliardaria che conduce) e il caratterista-manager Paul Giamatti, le cui interpretazioni arricchiscono e danno brio al film, anche in quei rari punti in cui la sceneggiatura perde il controllo sulla melanconia. Reene Zellweger è insospettabilmente brava e adatta nel ricoprire il ruolo di moglie devota, anche se probabilmente non riuscirà di togliersi facilmente di dosso l'immagine buffa di Bridget Jones.
La storia, che porta il marchio di fabbrica della premiata (Oscar come miglior film 2002) ditta di "A beautiful mind", racconta ascesa, caduta e rinascita del pugile di origine irlandese "Jim" Braddock, arrivato all'apice della carriera e imbattuto alla fine degli anni venti, per poi perdere economicamente tutto, dopo aver investito in borsa, con l'arrivo della Grande Depressione. Senza un lavoro, senza licenza di combattere, con una mano rotta e pieno di debiti, Braddock, insieme alla moglie Mae, le tenta tutte per cercare di "allontanare i suoi figli dalla strada", con commovente ostinazione, ma senza fortuna. Finché un giorno, il suo vecchio manager, Jack Gould, non si presenta nel suo fatiscente quartiere del New Jersey per proporgli un ultimo incontro, la classica seconda opportunità. Braddock accetta perché, non solo ha bisogno di soldi, ma anche perché se non dovesse essere carne da macello, avrebbe la possibilità di sfidare per il titolo, il campione dei pesi massimi Max Baer, insomma salutare il Garden alla sua maniera.
Nel mondo attuale dove certi valori nemmeno nascono più, la vita di James è degna di essere raccontata, non solo per i suoi connotati da favola, da cui proviene il titolo "La cenerentola del ring", ma per l'esempio intrinseco che quest'uomo è stato per migliaia di persone che lo hanno amato e sostenuto lungo la sua carriera e anche oltre, quando è divenuto anche uno dei cittadini più generosi di New York.
Una storia, in conclusione, che non ha la pretesa di impressionare il pubblico, ma semplicemente la voglia di far conoscere a tutti un'esperienza umana significativa, quella di James J. Braddock, un uomo che non si è mai tirato indietro di fronte alle sue responsabilità, né come padre, né come marito e né tantomeno come pugile.
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Recensione a cura di Simone Bracci - aggiornata al 26/09/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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