Recensione hunger regia di Steve McQueen Gran Bretagna 2008
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Recensione hunger (2008)

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locandina del film HUNGER

Immagine tratta dal film HUNGER

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Immagine tratta dal film HUNGER
 

Da qualche anno a questa parte il cinema britannico è in palese fermento. Ha proposto e continua a proporre pellicole di indubbia qualità, riconoscibili nello stile, potenti nel comunicare e caratterizzate da una particolare predisposizione all'essere ignorate. Ai vari Crowler, Meadows, Wright e Iannucci si è aggiunto, due anni fa, Steve McQueen. Già noto per le sue opere non cinematografiche - ha al suo attivo mostre di fotografie e sculture, nonché relativi riconoscimenti - il regista nel 2008 si cimenta nel suo primo importante lungometraggio e crea un'opera priva di difetti, vincendo l'European Film Awards per la miglior rivelazione. Anche quel giorno le case di distribuzione erano assenti.

Il soggetto scelto per "Hunger" dal regista britannico è la storia di Bobby Sands, protagonista di una delle parentesi più note della lotta per l'indipendenza della Repubblica Irlandese: Irlanda del Nord, 1976-1981, nella prigione "Maze" di Long Kesh, ai detenuti militanti dell'IRA non viene riconosciuto dal governo britannico lo status di "prigioniero politico". A questo rifiuto seguono proteste di varia natura da parte dei prigionieri, da quella delle coperte a quella dello sporco, finanche a quella della fame. Sarà Bobby Sands (Michael Fassbender), leader dei militanti IRA all'interno della prigione, a proporre e a dare personalmente inizio alla stessa. Morirà di inedia 66 giorni dopo.

Ciò che a McQueen interessa raccontare non è l'IRA, non sono le lotte di cui si rese protagonista, né le dinamiche politiche che traghettarono le stesse. Quello di McQueen è un film su un uomo e sulle sue idee, sulla forza di credere in esse e sulla determinazione nel portarle avanti; su un uomo che ha scelto di prendere una posizione, ma ancor di più su un uomo che quella posizione ha scelto di difenderla.
Il regista inglese ci tiene particolarmente a far arrivare ciò allo spettatore ed è fuor di dubbio che riesca nell'intento. E' probabile, anzi, che ci riesca fin troppo bene, se si considera la pressione emozionale che l'empatia con la sofferenza di Bobby Sands genera nella parte finale della pellicola. Perché ciò sia possibile è necessario creare un racconto che fino a poco prima sia stato tale da avvicinare il protagonista alle giuste corde dell'animo di chi guarda, e McQueen dimostra di esserne in grado. Egli, tuttavia, lo fa sfruttando solo e incredibilmente poco più di 20 minuti, gestendoli da un punto di vista prettamente tecnico in maniera innegabilmente notevole. Non a caso, infatti, la prima parte della pellicola quasi lascia sullo sfondo la figura di Bobby Sands.

È proprio questa gestione atipica dei capitoli nella narrazione a rappresentare uno degli aspetti migliori e più efficaci di "Hunger" ed è su di essa che la presente analisi si concentrerà.

Come accennato poco sopra, colui che solo in seguito diverrà il protagonista, inizialmente non è che un altro prigioniero, tanto che la telecamera per una buona parte della pellicola decide di soffermarsi e raccontare la storia di altri due militanti dell'IRA, catturati e rinchiusi in quella stessa prigione. È infatti seguendo la prigionia di Davey Gillen e Gerry Campbell che McQueen descrive il contesto all'interno del quale nascerà e si rafforzerà la scelta di Bobby Sands. In questo senso il regista usa il suo strumento alla perfezione; mette in primo piano la situazione generale nella quale si trovano i prigionieri, sì da servirsi, più avanti, del peso della stessa per appesantire il fardello decisionale sulle spalle di Bobby Sands e permettere a chi guarda di realizzare la reale portata delle motivazioni che lo condurranno alla drastica decisione di lasciarsi morire di fame.
Questa prima parte è cruda e sporca; come lo nocche sporche di sangue rappreso sulle quali si sofferma la telecamera, le nocche di un secondino il cui picchiare e torturare i prigionieri ormai sembra essere routine. McQueen non fa sconti nello sbattere in faccia alla spettatore la violenza; non la evita, non la nasconde, al contrario la cerca, vuol farla sentire, la rende reale. E' in questa situazione, a metà tra il sudiciume dovuto alle proteste delle coperte e dello sporco e la violenza, anche psicologica, all'interno della prigione, che matura la consapevolezza del leader, quella di dover prendere posizione per l'ennesima volta, di doversi muovere per cambiare il corso degli eventi.

Si giunge così al secondo periodo della pellicola, quello a cui McQueen affida il compito di restituire allo spettatore un ritratto di Sands che sia il più umano possibile, un ritratto attraverso cui delineare quelle motivazioni concrete ed emozionali che spiegheranno, a loro volta, il protagonista e le sue scelte. Il modo in cui il regista britannico costruisce e gestisce questa parte centrale è tecnicamente superbo: 22 minuti di dialogo, di cui 17 con camera fissa, senza stacchi, immersi in una fotografia stupenda che sfrutta ombre e tagli di luce. Lo scambio vede protagonisti Bobby Sands e il parroco della sua città, al quale il primo comunicherà la decisione di mettere la sua "vita in prima linea", dando inizio allo sciopero della fame.
Fin da principio il parroco sembra sapere cosa Bobby Sands gli dirà, infatti la prima parte del confronto vede scambi veloci e diretti su argomenti di poco conto, volti a ritardare l'argomento di discussione principale. Quando però ciò avviene, anticipato da attimi di silenzio, il tono del confronto diviene immediatamente più drammatico ed ogni parola acquista un peso fino ad allora quasi inesistente. Al termine, e come pochissime volte accade nel cinema, una parentesi così breve risulta essere ben più che sufficiente a dare spessore e a riempire di umanità il protagonista, tanto che la prospettiva verso ciò che si sta guardando cambia radicalmente.

Con la stessa lucidità mostrata fino a questo momento, il regista inglese, dopo la quasi totale assenza di dialoghi nella prima parte e dopo il fiume di scambi nella seconda, torna a ridurre le parole all'essenziale. In questi ultimi 20 minuti della pellicola, infatti, la telecamera riprende a comunicare quasi esclusivamente attraverso le immagini. Il risultato sembra una testimonianza video degli ultimi giorni di Sands, del tutto priva di cornici cinematografiche e, quindi, estremamente realistica. Uno sguardo freddo ma non per questo asettico che esplora gli occhi di un uomo nei suoi ultimi giorni di sofferenza, ossia l'unica cosa umana che gli è rimasta, dato che il resto del corpo, a seguito del mancato nutrimento (e, nella realtà, della dieta a cui si è sottoposto Fassbender) è ormai ridotto a carne ed ossa. McQueen si concede un'unica ricercatezza registica, ma che da sola vale tutto il film: Bobby Sands è a letto, quasi incapace di muoversi, ormai consapevole della sua morte; la telecamera lo guarda dall'alto, volteggiando come un corvo in attesa che il corpo si faccia cadavere. La sequenza è potentissima ed è la punta di un'ultima parte assolutamente empatica, cruda e dolorosa.

Come è ovvio che accada con personaggi di tale spessore, la perfezione interpretativa assume un'importanza primaria, nonché irrinunciabile. Michael Fassbender ("Inglorious Basterds", "300") sembra rendersene conto, dato che mette a disposizione una prova strepitosa. Si è sottoposto ad una dieta che gli ha "permesso" di perdere peso fino a livelli impressionanti, tanto che spesso, durante la visione, si fa fatica ad osservarlo senza soffrire con lui. Ha vinto il premo per la migliore interpretazione al British Indipendent Film Awards, al Chicago International Film Festival 2008, al London Critics Circle Film Awards 2009 e al BIFA 2009. E' il minimo.
Degna di nota anche l'interpretazione di Rory Mullen, che interpreta il prete. Ha appena 20 minuti per rendersi convincente e rendere di conseguenza convincente il suo personaggio. A lui, però, ne bastano giusto un paio. Dopo le primissime battute fa suo quel parroco umano ma anche cinico ed irriverente, rendendo lo scambio con Bobby Sands e più in generale la parte centrale, vivo, intenso e cinematograficamente stupendo.

"Hunger" non è un film su un'ideologia di massa, su una lotta per l'indipendenza, né un'opera che simpatizzi per l'una o per l'altra parte. "Hunger", come accennato inizialmente, è un film su un uomo, sulle sue convinzioni, giuste o sbagliate che siano, sulla coerenza con se stessi, sul coraggio di seguire se stessi. E in questo senso la pellicola è maledettamente riuscita.

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Recensione a cura di K.S.T.D.E.D. - aggiornata al 07/02/2011 11.24.00

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