Recensione i figli della violenza regia di Luis Buñuel Messico 1950
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Recensione i figli della violenza (1950)

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Miglior regia (Luis Buñuel)
VINCITORE DI 1 PREMIO AL FESTIVAL DI CANNES:
Miglior regia (Luis Buñuel)
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locandina del film I FIGLI DELLA VIOLENZA

Immagine tratta dal film I FIGLI DELLA VIOLENZA

Immagine tratta dal film I FIGLI DELLA VIOLENZA

Immagine tratta dal film I FIGLI DELLA VIOLENZA

Immagine tratta dal film I FIGLI DELLA VIOLENZA

Immagine tratta dal film I FIGLI DELLA VIOLENZA
 

Oltre al rimosso psicologico esiste anche un rimosso sociale. Il primo regista che ebbe il coraggio di rappresentare in un film il mondo volutamente dimenticato ma diffuso e reale della povertà estrema e della violenza, per di più senza veli sentimentali e con il massimo del realismo, fu nel 1950 Luis Buñuel con "Los Olvidados" (letteralmente "I dimenticati", tradotto in italiano con "I figli della violenza").
Per lui la militanza surrealista era stata una scelta etica di vita.

Il suo fine era mostrare a tutti cosa c'è dietro il velo di ipocrisia e falsi sentimenti che copre quello che noi chiamiamo amore, patria, famiglia o religione, quelle verità scomode che fa male vedere ma che è dovere sapere. Il regista di "Un chien andalou" e "L'age d'or" dovette però pagare cara questa scelta. Persino nei "liberali" Stati Uniti trovò tutte le porte chiuse e fu costretto a emigrare a Città del Messico, dove sopravvisse divertendo la gente semplice con film tutto sommato dignitosi. Tutto questo fino a che non arrivò a Città del Messico il film "Sciuscià" di Vittorio De Sica. Era il segnale che aspettava: per la prima volta lo sguardo della macchina da presa penetrava nelle periferie e nei bassifondi, l'equivalente sociale che ha il ruolo dell'inconscio nella psiche umana. Adesso toccava a lui dire la sua, andando ancora più a fondo di quello che aveva fatto De Sica.

Città del Messico forniva dell'ottima materia prima. Buñuel aveva conosciuto di persona le immense periferie fatte di scheletri di case e baracche, abitate da un genere di persone che a stento si riusciva a definire umano. Come in "Sciuscià", scelse di rappresentare questo mondo dal punto di vista dei bambini e degli adolescenti, il migliore per descrivere l'impatto decisivo che ha l'ambiente sul comportamento e la psiche di una persona. A differenza del film di De Sica, Buñuel rifiuta qualsiasi consolazione di natura sentimentale. Bontà, gentilezza, amicizia, devozione familiare, solidarietà sono per Buñuel delle illusioni; in quell'ambiente non servono a niente, sono controproducenti. Le circostanze fanno in modo che se si vuole sopravvivere bisogna essere scortesi, egoisti, opportunisti e violenti. De Sica/Zavattini facevano appello al cuore e alla pietà per smuovere le acque, Buñuel vuole invece colpire duro e far riflettere sulle cause ambientali di certi atti che creano così tanta meraviglia quando appaiono all'improvviso sulla cronaca nera di un giornale. Fin dalle prime immagini del film si cerca di togliere qualsiasi tipo di poesia o senso estetico. Siamo in un cortile anonimo con case in costruzione e bambini cenciosi e sdentati (sembra una scena presa da un film di Pasolini). Il doppiaggio italiano nasconde purtroppo il modo di parlare duro e sguaiato che hanno tutti, senza eccezione.
Anche fra madre e figlio ci si esprime in maniera scortese e aspra.
Ognuno pensa prima di tutto alla propria sopravvivenza ed è una lotta all'ultimo sangue, dove il più forte e spavaldo vince e il più debole soccombe, senza pietà.

I due protagonisti del film sono l'adolescente Jaibo e Pedro, un bambino di 9-10 anni.
Jaibo è la figura più complessa e inquietante del film. È senz'altro una persona molto intelligente e capace, desiderosa di primeggiare ("Voglio diventare qualcuno") e nell'ambiente in cui vive non c'è altra via che quella della delinquenza organizzata. Grazie alla sua maggiore età, al fascino del suo fare vissuto e deciso (ha "imparato" molto al riformatorio), organizza una vera propria banda di bambini di strada dedita al furto e al guadagno facile; e qual è il modo più facile di far soldi se non assalire chi è più debole e indifeso, tipo un altro bambino buono e ingenuo, un cieco, un handicappato. Le scene in cui rubano a queste persone sono forti e fanno male quanto alcune scene di "Arancia Meccanica" di Kubrick. Jaibo poi instaura una vera e propria legge nel suo gruppo fatta di omertà e fedeltà. Non può tollerare che qualcuno vada sulla "retta" via, anche se è l'amico Pedro. Sarebbe una sconfitta e un indebolimento della sua banda. Questo per dire che agisce per convenienza e non per cattiveria congenita. Tra l'altro ogni tanto gli esce fuori dal di dentro qualcosa: il disgusto e la rabbia quando si accanisce a bastonare qualcuno, oppure il bisogno di un tetto e di un affetto che non ha mai potuto avere (vedi l'episodio con la madre di Pedro). Il sogno che accompagna i suoi ultimi istanti di vita getta luce sulla sua esistenza. S'immagina la sua ipotetica madre che gli dice: "Attento, viene il cane rognoso, viene da te. No, no, stai cadendo nella fossa nera e sei solo, solo, solo, solo come sempre, come sempre".

Pedro invece rappresenta le persone "positive" che hanno la ventura di vivere in questo ambiente e che sono destinate a soccombere. Una sua frase è emblematica: "voglio diventare buono ma non so come fare". Si trova alle prese sempre e solo con gente che lotta per la sopravvivenza e bada esclusivamente al lato materiale della vita.
Anche sua madre non ha tempo per smancerie o affetto, visto che deve lavorare per mantenere altri tre bambini e non può tollerare un figlio che pesa economicamente. Il tutto diventa una specie di lotta contro l'emergenza materiale e affettiva che lacera e distrugge il povero Pedro. Anche stavolta un sogno esemplifica il suo animo. Immagina un suo amico che ha contribuito ad uccidere, sanguinante e sorridente sotto il suo letto, sua madre finalmente amorosa che gli offre da mangiare un enorme e informe pezzo di carne cruda che gli viene sottratto dal morto.
I tentativi di mettersi sulla retta via sono inesorabilmente resi vani da Jaibo, come a dire che per le persone come Pedro il destino è segnato. E' quasi impossibile salvarsi dall'ambiente in cui si è cresciuti. Il finale del film è riservato a lui ed è un finale duro, durissimo, il più duro della filmografia di Buñuel; un vero e proprio pugno nello stomaco.

I pochi personaggi positivi (la civettuola Maria e Ojitos, un bambino abbandonato dal padre al mercato) tengono l'affetto e la gentilezza come qualcosa da centellinare e usare solo quando merita. Comunque anche loro, come tutti, imparano a convivere con l'opportunismo e la violenza. Addirittura le figure che dovrebbero ispirare pietà e compassione sono in realtà forse più cattive degli altri. Il cieco, ad esempio, usa con cinismo il suo handicap e sfrutta senza pietà il povero Ojitos. Tra l'altro il suo personaggio serve anche a rappresentare una categoria molto diffusa in quegli ambienti (e non solo): gente fatta di ipocrisia ed egoismo, piena di nichilismo e disprezzo per l'umanità. Ad esempio è un nostalgico di Porfirio Diaz (come dire di Mussolini) e accoglie così la notizia della morte di Jaibo: "Uno di meno, uno di meno. Dovrebbero ammazzarli tutti prima di nascere". Non a caso è cieco, come tutta la gente mentalmente cieca, che non vuole, che si rifiuta di vedere.

Non poteva che venir fuori un film accolto malissimo. Ad aggravare le cose, all'inizio appare la seguente didascalia: "Questo film è basato su fatti realmente accaduti e tutti i personaggi del film sono autentici".
L'opera tenne il cartellone per soli quattro giorni. La maggior parte della gente usciva dopo il primo tempo, il resto se ne andava indignato per la pubblicità negativa che veniva fatta al Messico.
Anche a Parigi in un primo tempo non ebbe buone accoglienze. Fu bocciato addirittura dal Partito Comunista per delle cause puerili (la polizia e un educatore venivano messi in buona luce). In realtà è anche un duro colpo all'utopia comunista. Come si può sperare di tirare fuori gente consapevole, combattiva e fiduciosa in un futuro migliore da quest'ambiente? Qui il concetto di "popolo" ci fa una pessima figura. Il vento cambiò solo quando sulla Pravda apparve un articolo entusiasta di Pudovkin. Il Partito comunista francese non ebbe allora più nulla da ridire e il film vinse addirittura il Gran Premio per la migliore regia al festival di Cannes del 1951.

E a noi spettatori che lo guardiamo dopo quasi 60 anni, cosa può dire? A noi posteri è riservato il discorso che fa una voce off all'inizio del film:

"Nascosti dietro gli imponenti edifici di una grande città moderna come New York, Londra, Parigi (e ci aggiungerei anche Milano e Roma), ci sono abissi di miseria che celano bambini sporchi, affamati, abbandonati, fertile terreno per futuri delinquenti. Gli sforzi non hanno che risultati limitati. Solo in futuro possiamo sperare di inserirli utilmente nella società. Questo film non è un film ottimista. Lascia la soluzione del problema alle forze del progresso dei nostri tempi".

Visto che adesso viviamo in quel futuro indicato nel film, dobbiamo domandarci se esistono ancora i "dimenticati" e se ci sono "le forze del progresso" che se ne occupano.

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Recensione a cura di amterme63 - aggiornata al 28/01/2009

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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