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Una delle tendenze del cinema contemporaneo è l'incapacità di arrestare da una parte il processo delle nuove mode - atte a sovvertire l'epilogo dell'immagine e quantomeno a metaforizzare la fine del cinema come Rappresentazione e Metafora - e dall'altro la consapevolezza del limite di questa operazione.
In poche parole, lo sforzo vano di rappresentare qualcosa incanalandolo in un processo retrivo e blandamente moderno di omologazione e identità non riesce a fare i conti con la costante e remissiva inattitudine dell'immagine. Burton è Burton, ossia ha il suo stile riconosciuto, le sue evidenti influenze, ma resta a modo suo un marchio di fabbrica: egli è riuscito a rendere individualista la sua sperimentazione, a chiamarla COL SUO NOME. Tutto il resto - o quasi - non è più frutto dell'autore cinematografico, ma di un gioco di marketing che realizza immagini mirabolanti, ma da cui l'autore non è altro che il "prestanome". E' un esempio squallido, lo so, ma è come la classica vicenda del cuoco che viene osannato per i piatti preparati da un cameriere "tuttologo".
Attendere al varco Gilliam con un biopic sui fratelli Grimm ci costringe a rivalutare "Neverland" e la sua spicciola, ma indubbiamente sincera, etica del lirismo e dell'ingenuità ad ogni costo. Tutt'altro, e questo lo sapevamo. Ma chi sperava in un'autore capace non solo di dissacrare il Mito delle Favole "nere" dei due letterati tedeschi, ma anche di incollare allo schermo con la propria indubbia capacità visiva, si sbaglia di grosso. L'apolidicità dell'operazione è tutta nel limite di essere opera su commissione, priva(ta) così della personalità davvero unica del cinema di Gilliam, anche nei suoi momenti meno ispirati ("The fisher king").
Tutto ha inizio in uno scenario che racconta l'occupazione straniera dei francesi nella Germania di fine 700. A tutto ciò, al richiamo non allegorico e verista di un villaggio demone di intolleranze - ma anche di credenze popolari e di emblematici richiami alla cultura popolare da un Medioevo mai del tutto sopito - subentra appunto l'estetica dark delle favole dei Grimm, veri e propri incubi che riportano la fanciullezza a rinnegarsi nel Processo del Male e nella sua sfiancante metafora (la paura del bao-bao, l'uomo Nero, etc.). I bambini dei Grimm trovano l'unica traccia, l'orrore tracciato dagli adulti, ma anche un'indiscussa crudeltà, che li separa dalle ragioni dei canoni tradizionali (la figura della matrigna) o dall'immaginario del sogno di massa (la ricchezza, la bellezza eterna, la gioventù, etc.)
Leggendo i loro libri, oggi, possiamo trovare ancora splendide e irraggiungibili metafore, ma anche una discriminante anche razziale nei confronti della quale i Grimm non vengono direttamente chiamati in causa, "simboli" o testimoni di una costante paura del "diverso", dello "straniero".
Il film raggiunge faticosamente ma tutto sommato con una certa efficacia questa dimensione, mettendo in relazione il consueto dualismo tra i due fratelli, il distratto ma intelligente, il superficiale ma attraente, ovvero due uomini che hanno bisogno ognuno dell'altro. Per bilanciare questa tendenza, però, il pastiche di Gilliam dissacra le favole a suo piacimento (affascinante il riottoso cavallo che si mangia una bambina), le smaschera, ne rivela le intenzioni e le innate paure ancestrali o popolari, ma con la stilosità narrativa (epilogante) di un'episodio dei Looney Tunes (la classicissima frase "e vissero felici e contenti").
Non è tanto l'incubo quanto il suo viatico ordinario a infastidire: rami che si spezzano, temporali che squarciano la foresta, corvi gracchianti, alberi animati e oscene creature; tutto questo immaginario che nel cinema è stato a lungo temuto e incoraggiato, non ha oggi alcun sapore di novità.
Avevano già detto tutto "Lemony Snicket", "Big Fish"e in parte la trilogia del nordico "Lord of the Rings". Pertanto il film di Gilliam è invecchiato precocemente, proprio per colui che primo aveva indicato un nuovo codice di immaginario fantastico ("The time bandits", per esempio). Inoltre se la metafora è un ordine costituito delle favole, tutto ciò è occultato, omesso, o semplicemente tradito dall'esibizione costante di un immaginario fragoroso e sopra le righe, che costringe lo spettatore a una visione estenuante e, in definitiva, priva di vere emozioni.
Chi cercava lo stesso pathos che poteva riportarci ai nostri sogni e incubi infantili, senza bisogno di operare un transfert corporale e soggettivo con la parte concreta e attuale di noi stessi, ne rimarrà deluso. Il film scivola via senza che ce ne accorgiamo, risulta stanco, pedante e inutilmente protervio nella sua ricerca visiva ad ogni costo: la stessa presenza della Bellucci non aggiunge nulla, se non il costante bisogno di estetizzare l'esteriorità della bellezza femminile, o la purezza naïveté delle favole, e quindi rispetto alla natura misogina del mondo maschile (donna.strega.incantesimo.matrigna.vecchia.giovane).
In definitiva, un film tedioso cui lo spettatore fatica a identificarsi, giungendo con estrema fatica alla fine, all'epilogo finalmente "classico" senza aver provato la minima emozione. Tutto molto calcolato, freddo, rigoroso nella sua caciarona provocazione (?) in fase di montaggio. Considerando la ricchezza d'immagine di questa gotham city picaresca, solo il gelo attraversa questo effluvio di maschere e incoscienti (eterni?) bambini.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 14/09/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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