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Nella mente di ciascuno coesistono il buio e la luce, non di rado succede che essi si sfiorino o addirittura si sovrappongano per poi riequilibrarsi, talvolta è il buio a prendere definitivamente il sopravvento, senza ritorno.
E' dal confine fra buio e luce che trae spunto il film di Chabrol (il cui titolo italiano per una volta ci indovina): una storia borderline tra ragione e follia ispirata al romanzo di Ruth Rendell "La morte non sa leggere" (con lo stesso titolo era già uscito nel 1986 un film canadese di Dusama Ravi, passato pressochè inosservato al pubblico).
Chabrol, tuttavia, non solo riprende il racconto noir della Rendell, altresì lo rielabora, lo fa suo, sviluppando l'intreccio nell'odiata/amata provincia francese e soprattutto imbastendolo sull'ordito della consueta critica alla vecchia classe borghese.
"La Cerimònie", titolo originale del film, ci racconta di un macabro dramma psicologico, il cui scenario è una circoscritta villa di campagna, dove, solo alla fine. Si verificherà il compimento della violenta cerimonia dissacratoria del titolo.
Protagonista è Sophie (Sandrine Bonnaire), giovane donna di bassa estrazione sociale, assunta come governante presso la ricca e borghese famiglia Lelievre in una antica villa nei pressi di Saint Malo, una cittadina della provincia francese.
Sophie è una colf perfetta forse troppo taciturna, ma presto si fa ben volere dalla famiglia che l'ha assunta. Salvo alcune piccole contrarietà dovute al suo strano comportamento, tutto sembra procedere per il meglio, finché non interviene un nuovo personaggio destinato ad innescare quella "bomba ad orologeria" finora silente, ma pronta ad esplodere.
Jeanne (Isabelle Huppert) è la postina del paese, stravagante e logorroica, dalla personalità opposta a quella di Sophie.
Gli opposti si attraggono,d'accordo, ma altre ragioni stimolano l'intesa tra le due donne: la comune condizione di subalterne, innanzitutto; poi l'invidia commutata presto in odio verso la classe privilegiata; è però il passato torbido di entrambe ad avvicinarle e a renderle complici, senza tuttavia mai manifestarsi completamente: un'ombra che appare solo in sporadiche e intime confessioni.
L'amicizia ambigua fra le due donne è malvista dal signor Lelievre, il quale da sempre detesta la postina impicciona (apre le lettere prima della consegna) e insolente (non risparmia insulti e cattiverie all'odiata famiglia dell'alta borghesia parigina); è inoltre insospettito dalle stranezze della governante e non ne fa mistero con la moglie e i due figli.
Sophie, pur brava nel suo lavoro, talvolta pecca di riservatezza e distrazione: ignora le consegne scritte, dimentica la lista della spesa, non trascrive i messaggi telefonici. Messa alle strette dai Lelievre, la giovane confessa di non vedere bene, in realtà nasconde un grave problema di analfabetismo di cui si vergogna in modo ossessivo.
Il rapporto con Jeanne mette un po' per volta in luce, inasprendole, certe contraddizioni all'interno del rapporto tra Sophie e la famiglia Lelievre, fino all'esacerbazione tragica del finale.
Il realismo emerge dallo sguardo distaccato e freddo con cui Claude Chabrol sceglie di raccontarci la storia che, priva di soggettività, si dipana da sola lentamente, senza colpi di scena, senza improvvisi balzi emotivi.
Dal lungo piano sequenza iniziale che rappresenta l'incontro tra Sophie e la signora Lelievre, le vicende si susseguono con linearità, acquisendo via via un'indefinibile inquietudine, percepita dallo spettatore per l'intero film.
Il regista è abile nel creare questa normalità, restandone al di fuori, nel contempo focalizzando l'attenzione su particolari solo apparentemente insignificanti (ad esempio certe manie di Sophie come quella per la Tv e per il cioccolato); attraverso primissimi piani sugli occhi, sulle mani, cattura totalmente l'attenzione del pubblico, incanalandola su un particolare sguardo o gesto che lo inquieti, inoculandogli una sorta di disagio premonitorio.
L'obiettivo di Chabrol, infatti, non è mai invadente nel rapporto tra spettatore e oggetto della narrazione, ma è subdolamente abile ad incuriosire il pubblico con sequenze apparentemente grigie. L'abilità del regista sta proprio nel delineare il dramma per l'intera narrazione attraverso suggerimenti sussurrati, ma capaci di incutere un forte senso di disagio per l'intero film e in questa sua caratteristica Chabrol strizza l'occhio al maestro Hitchcock, di cui è da sempre profondo estimatore.
Il realismo con il quale il regista dipinge la famiglia alto-borghese è impietoso, tra falsi moralismi e ipocrisie progressiste.
L'interesse della figlia per la domestica troppo riservata nasconde, ad esempio, una subdola curiosità; così come certe "accondiscendenze" della signora Lelievre nei confronti di Sophie non fanno altro che sottolinearne la superiorità di classe e di cultura e aggravare l'umiliazione della domestica; per non parlare poi dell'arroganza autoritaria del capofamiglia, mascherata talvolta da falso paternalismo.
Non si prova certo simpatia per la famiglia Lelievre, che si solleva in rapidi slanci di falso progressismo, addirittura citando Nietzsche ("ci sono nelle persone per bene molte cose che mi ripugnano e certo non è il male che è in loro"), ma che in realtà resta arroccata ai propri privilegi di classe, alimentando il risentimento di Sophie, il cui atteggiamento freddo e indifferente nasconde una profonda dissociazione dell'anima, non meno di quello esplosivo e impertinente di Jeanne.
Nell'ovvietà del loro rapporto d'amicizia si percepiscono improvvise stonature, sintomi di un odio a lungo represso, lentamente sconfinante nella follia contro quella famiglia borghese che le mortifica, in particolare; contro la società benpensante, in generale. Persino il loro impegno nella raccolta di abiti usati per i poveri scaturisce in un accesso di ribellione di fronte a quegli "stracci" donati solo per lavare le coscienze dei più fortunati.
La critica da tempo riconosce a Chabrol la bravura nel disegnare indimenticabili ritratti di donna. Le sue sono donne devastate da dissidi interiori mai risolti, se non tragicamente; imprigionate in un sistema sociale che vorrebbe schiacciarle e di cui loro stesse diventano vittime sacrificali per un ribelle istinto di sopravvivenza.
Le due protagoniste de "Il buio nella mente" sono destinate ad una fine insensata come insensato appare il graduale passaggio dal risentimento a lungo covato all'esplosione della follia nella normalità di vite ovvie, addirittura banali. Noi spettatori navighiamo con loro nella profondità della psiche umana per approdare confusi all'isterico finale, dove un rito, tanto beffardo quanto espiatorio, si consuma sulle note del Don Giovanni di Mozart.
Se le due attrici scelte dal cineasta parigino, Isabelle Huppert e Sandrine Bonnaire, incarnano perfettamente le personalità enigmatiche ed agghiaccianti delle due protagoniste e danno prova di estrema bravura, Jacqueline Bisset si adagia bene nel ruolo secondario della madame snob e raffinata.
Tutte e tre rappresentano con convinzione i guasti esistenziali e le contraddizioni della società contemporanea, che preannunciano le tragiche storie di follia all'interno di famiglie apparentemente normali.
Difficile rappresentare questa normalità interrotta e profanata, solo l'occhio impercettibilmente indiscreto del maestro Chabrol riesce a farlo, offrendo al pubblico un noir indimenticabile con un finale di una ferocia e freddezza inaspettate.
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Recensione a cura di Pasionaria - aggiornata al 18/12/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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