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Con "Il gioellino", Andrea Molaioli giunge alla sua seconda prova, quasi quattro anni dopo il fortunato "La ragazza del lago" del 2007, ancora una volta con il grande Toni Servillo nel ruolo del personaggio principale.
Il film narra dall'interno il "crac" finanziario di una grande azienda agro-alimentare, la Leda (che sta per "latte e derivati alimentari"), e ricalca fedelmente le vicende della Parmalat.
Con l'espressione "il gioiellino" il presidente Rastelli si riferisce alla sua azienda, in quello che allo spettatore fa l'effetto di un'ironia sempre più grottesca. Il management dell'azienda si rivela inadeguato ad affrontare le sfide poste dal mercato e va verso un indebitamento sempre maggiore, sino a falsificare i bilanci, a gonfiare le vendite,ad accollare il rischio sui risparmiatori, entrando in borsa e gonfiando il valore delle quote. Infine, la scelta estrema prima del collasso è ricorrere agli strumenti della finanza "creativa" (ossia ardite operazioni finanziarie che fanno diventare i debiti strumenti di credito).
Dietro ad Amanzio Rastelli (interpretato da Remo Girone) si cela Calisto Tanzi, mentre Toni Servillo interpreta Ernesto Botta, alias Fausto Tonna (si noti il vezzo di fare dei nomi dei due personaggi di finzione quasi degli anagrammi di quelli reali).
I tre sceneggiatori (lo stesso Molaioli, insieme a Ludovica Rampoldi e Gabriele Romagnoli) hanno romanzato la cronaca, cercando di concentrarsi sulla definizione dei caratteri e corredando la storia di eventi e personaggi d'invenzione, tra i quali spicca Laura Aliprandi, la giovane nipote di Rastelli, interpretata da una Sarah Felberbaum compassata ma apprezzabile. Meno convincente appare l'interpretazione convenzionale di Girone, mentre Servillo infonde al suo personaggio (quello più a fuoco) una nevrosi sanguigna, scostante e solipsistica, con il talento cui ci ha abituati.
Molaioli cita Rosi come fonte d'ispirazione, e in particolare "Il caso Mattei" (1972). A noi viene in mente invece il Vincenzo Marra de "L'ora di punta", 2007, terzo film con cui un regista ammirato per i suoi film precedenti, aveva voluto denunciare le storture dell'alta finanza, in forma d'apologo morale. L'ambizione non all'altezza del risultato fa temere anche per Molaioli una diffusa stroncatura di quest'opera seconda: che difficilmente sarà baciata, a differenza della prima, da un grande successo di pubblico ("La ragazza del lago" fu addirittura benedetto – forse troppo precocemente – da ben dieci David di Donatello, sulla scia dell'entusiasmo riscosso).
E' come se le velleità autoriali, e l'eccesso di ambizione, insieme ai proverbiali limiti dei nostri sceneggiatori, portassero registi giovani e promettenti a "steccare" una seconda (o terza) opera: era successo anche a Paolo Franchi, molto elogiato per il notevole "La spettatrice", che aveva poi deluso con "Nessuna qualità agli eroi" (2007).
"La ragazza del lago" era il felice adattamento di un giallo norvegese, scritto dall'esperto Sandro Petraglia, in cui il regista aveva indovinato i toni giusti per restituire atmosfere alla Simenon, efficacemente sostenute dalla musica di Teho Teardo. "Il gioiellino" vuole essere allo stesso tempo film d'inchiesta e apologo morale.
Formalmente prossima agli standard televisivi, l'inchiesta-fiction di Molaioli non riesce a prendere fino in fondo la via della denuncia (semplicemente perché racconta una vicenda inventata e allusiva) e soprattutto non approfondisce le tracce esistenziali e morali che dissemina. Sarebbe meglio valso allo scopo un documentario. Si pensi del resto a come lavorano negli Stati Uniti sugli stessi argomenti: "The corporation" (2003), "Inside job" (2010, recentemente insignito del premio oscar come miglior documentario dell'anno). Oppure, quando viene intrapresa la via dell'apologo morale che intende farsi allegoria del presente, i riferimenti a fatti e persone reali sono apertamente esibiti ("The social network", David Fincher, 2010), allo scopo di rendere al massimo il potenziale metaforico insito in una vicenda precisa.
Il film di Molaioli, invece, non va più in là di una "riproduzione", analogica, dei fatti di cronaca. Il suo è uno sguardo che si propone di fronteggiare temi scottanti dell'attualità e del dna di un popolo, senza però lo stile, la capacità di penetrare la realtà sino a sviscerarla impudicamente, restituirne un ritratto espressivo e artisticamente rilevante (Sorrentino e Garrone restano i soli ad essersene dimostrati capaci, negli ultimi anni).
"Il gioiellino" mette in scena una lenta agonia, procedendo per accumulo.
Accumulo di stereotipi, luoghi comuni, didascalismi. A oltranza, sentiamo frasi come: "Tanto, il falso in bilancio non è più un reato"; oppure: "Non dovevamo tagliare i regali alla stampa" (quando la stampa si mette contro). Situazioni stereotipate, come ad esempio la sotto- trama della giovane rampante (la Felberbaum) che inizia con il prestare il proprio corpo alle ambizioni di carriera, quindi si fa persino coinvolgere mentalmente in un abbozzo di relazione.
Sottolineature didascaliche: lo slogan di un'agenzia di viaggi rilevata per "diversificare" il mercato ostenta "Portiamo tutti dappertutto", ma l'agenzia è talmente messa male che presso la sua sede mancano persino le cialde per fare i caffè alle macchinette automatiche.
C'è un'insistenza continua sul provincialismo: dalle lezioni di inglese su nastro ascoltate dal ragionier Botta, alla sua volgarissima arroganza – quasi caricaturale – con cui, in due diverse circostanze, manda a "fare in..." con ricercate locuzioni (scrupolosamente tradotte), i suoi allibiti interlocutori. Viene diffusamente sottolineato il fastidio ad usare la terminologia tecnica inglese, così come il rifiuto a seguire le nuove prassi del capitalismo internazionale (Rastelli si ostina a non privarsi del proprio 51%). Due luoghi comuni dell' "italianità" sono particolarmente in rilievo: il familismo, con cui l'azienda è diretta quasi esclusivamente da parenti e affini, e l'assenza di competenza (con personaggi come Botta, privi di laurea, a ricoprire le posizioni di massima responsabilità).
Gli autori sembrano calcare la mano su di un'ipocrisia, quasi schizofrenica, che sarebbe tutta italiana: a parole, questi personaggi disprezzano il denaro, in concreto, fanno di tutto per restarvi abbarbicati, quasi persuasi vi sia dell'eroismo nell'affondare con tutta la barca (mentre così facendo sono meschini, dal momento che il loro disastro finanziario travolge e porta al fallimento onesti risparmiatori).
Per rendere ancora più esplicito il provincialismo italiano, ci vengono proposte alcune trasferte negli Stati Uniti e in Russia. La descrizione dei due Paesi pare ancora più stereotipata: da un lato abbiamo un megalitico capitalismo finanziario personificato da banche grandi come grattacieli (di matrice ebraica, tanto per cambiare – Rothman il cognome scelto per il banchiere); dall'altro, in Russia regna il torbido. L'immagine del nuovo capitalismo dell'Europa dell'est passa attraverso la parabola (raccontata dal magnate russo) dei fondi neri che possono diventare bianchi come fanno i cavalli lipizzani, oppure attraverso frasi quali "la Russia è come il paradiso: difficile entrare, impossibile uscire".
Due facce di una stessa medaglia? Possono apparire corretti, questi ritratti, ma certo sono estremamente elementari.
Gli autori del film hanno voluto disegnare personaggi esemplari di un Paese che specula sull'invenzione, sulla creatività della truffa. Tuttavia almeno la "finanza creativa" non è – come nel film può sembrare – l'ennesimo parto della fantasia nazionale: essa anzi è germinata negli Stati Uniti (il caso Enron), e la recente, devastante crisi dei mercati finanziari sta a dimostrarlo.
E' esatto invece che la tendenza a sottostimare una situazione di allarme critico sia una peculiarità italiana. "Il senso della crisi tanto visibile in Germania e in Francia, in Italia sembra non esistere. Eppure lo stile di vita del Paese sta diventando insostenibile, anche prendendo a riferimento un periodo di tempo relativamente breve". Questa citazione è di un prestigioso economista inglese, Anthony Giddens ("L'Europa nell'età globale", 2007), e ben si adatta a quanto dicono gli autori del film, a proposito dei loro personaggi "abituati a stare sull'orlo dell'abisso ostinandosi a guardare dall'altra parte". Una definizione che li riassume bene: e, temiamo, si attaglia non solamente a questi loschi figuri.
In questo senso, "Il gioiellino" ambisce a fotografare un momento storico e civile particolarmente buio e difficile, per l'Italia: tuttavia il film non assurge ad allegoria efficace di una civiltà in crisi che sopravvive a se stessa senza rendersi conto che il suo stile di vita sta diventando, appunto, progressivamente insostenibile. Gli esibiti riferimenti, le sottolineature didascaliche all'attualità sono troppo circostanziati ma lasciano il tempo che trovano: pensiamo al riferimento fatto da un giornalista al "blog di un noto comico", e soprattutto alla visita di Rastelli al Presidente del Consiglio, presso una sontuosa villa privata (... Arcore). Il dialogo non lo vediamo, rimane nelle "segrete stanze", ma veniamo informati che invece di parlare della crisi dell'azienda, Rastelli ha negoziato la cessione di un giocatore della sua squadra di calcio: l'episodio cui si allude è la cessione di Gilardino al Milan da parte del Parma.
Il ritratto della Parmalat, del suo "crac", è talmente accurato che ci si chiede se sussistano effettivamente gli scrupoli legali di cui parla la sceneggiatrice Rampoldi ("necessaria prudenza rispetto a procedimenti giudiziari ancora in corso"), e quali siano i falsi pudori che possono aver suggerito il cambio di nome in Leda in quello che resta un film ispirato in tutto e per tutto alla vicenda Parmalat.
Molaioli prova, con accorgimenti di ripresa, a distaccarsi dagli stilemi televisivi. Ma infarcire di panoramiche, carrelli, zoom e dolly, quasi ogni inquadratura (anche i primi piani) non è sufficiente a fare della tecnica di ripresa di Molaioli uno stile personale. E nelle scene in cui, verso la fine, nel tentativo di far sparire le tracce, vengono fatti a pezzi elementi di hardware, o presi ad accettate (sic!) computer interi (ennesima carrellata, sottolineata dalle invasive musiche di Teardo) s'insinua persino una punta di ridicolo.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 04/03/2011 10.56.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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