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"Cerco la chiarezza perché è ciò che mi commuove, che mi dà la sensazione di accedere a qualcosa di vitale, alla parte infinita di ogni essere, senza che lo stile si metta di traverso"
Mia Hansen-Løve, Press-book del film
È un film, "Il padre dei miei figli", in cui pulsa un'intensa sensibilità femminile. Una sensibilità che si coglie con pienezza nella prospettiva in cui sono visti e "sentiti", nel film, gli eventi e i temi affrontati, e che emerge in ogni istante dal tono della messinscena, dalla delicata conduzione degli attori che si intuisce, e dalla recitazione della protagonista Chiara Caselli e delle tre bambine (a loro riguardo, va detto che il titolo italiano avrebbe dovuto essere "Il padre delle mie figlie", come i sottotitoli dell'edizione originale, più fedelmente, riportano).
Diretto dalla giovanissima Mia Hansen-Løve – insignita del premio speciale della Giuria nella sezione "Un Certain Regard" al festival di Cannes 2009 – alla sua opera seconda, è un film che parla di vita partendo dalla morte, che intuisce la speranza a partire dalla disperazione, che racconta dell'immortalità dell'arte (che ci sopravvive) ma ancor più dell'importanza della dimensione intima, privata, degli affetti. Di come, quando un uomo muore, sopravviva nel cuore dei suoi cari e dei suoi figli, prima ancora che nell'eredità professionale che lascia con l'opera frutto del suo lavoro.
"Papà sopravviverà nei suoi film" viene detto verso la fine a una delle figlie piccole, e lei risponde: "Sopravviverà anche in noi!". E in questa affermazione, pronunciata con l'ingenuo candore e la disarmante sincerità dell'infanzia, sta racchiusa, secondo chi scrive, una delle semplici, ma profonde, verità che il film esprime.
Protagonista assoluto nella prima parte del film è Grégoire Canvel, un illuminato produttore cinematografico, che ama l'arte nel cinema e il cinema d'autore. Strangolato dai debiti, racchiuso in una trappola tutta interiore di immensa fragilità – che è incapace di esorcizzare comunicandola a chi gli è più vicino – è spinto al suicidio.
Il suo gesto è messo in scena quasi di nascosto, con pudore e un'etica antiretorica diremmo bressoniani. La seconda parte del film si preoccupa di demistificare il più possibile quel gesto, di non assolutizzarne la gravosità, che esso rischia fatalmente di assumere nel giudizio sulla vita di un uomo.
L'atteggiamento concreto e costruttivo della moglie Sylvie, che prende in mano le sorti della casa di produzione cercando di salvare il salvabile (anche se non può evitarne la liquidazione), svela di per sé l'intrinseca non-irreparabilità della situazione che invece ha spezzato Grégoire.
Tutta la seconda metà del film è tesa ad annullare, se non ad invertire, il giudizio negativo che il suicidio getta come un manto nero su chi, compiendolo, ha abbandonato alla vita, alla solitudine, la propria famiglia (oltretutto "lasciandola nei guai"). L'ottica scelta dall'autrice è molto coraggiosa.
Nel film i sentimenti di fallimento e disperazione hanno un ruolo notevole, ma, come sostiene la stessa regista, "non cancellano il resto, non rappresentano l'unica verità: volevo esprimere il paradosso di queste pulsioni contraddittorie nella stessa persona, il conflitto tra luce e oscurità, forza e vulnerabilità".
Ecco: qui sta il massimo di sensibilità, che crediamo di essere nel giusto nel definire peculiarmente "femminile", di cui il film è intriso. Lo spirito che sembra animare l'autrice non è quello di chi ha l'ambizione di confezionare un'opera dal significato paradigmatico (come siamo abituati dalla stragrande maggioranza di autori-uomini, nel cinema, come nelle altre arti), ma un'opera che parla, con toni universali, di un tema universale: il diverso modo, mascolino e femmineo, di affrontare la vita. Tragico, assoluto, il primo; perseverante, conservativo, fiducioso, il secondo. Che, alla prova dei fatti, parrebbe quello veramente costruttivo: rivolto al futuro, con radici solide negli affetti.
"Il padre dei miei figli" (notare la soggettività femminile nel titolo) rappresenta nella sua prima parte un uomo oberato e oppresso dal lavoro, che pur non arrivando a trascurare totalmente gli affetti e la famiglia, è a un pelo dal farlo (e con molta partecipazione, la regista dimostra uno sguardo assai comprensivo nei confronti di questo atteggiamento tradizionalmente maschile).
Alla figura di Silvie, invece, è affidato il compito di restituire la capacità – tipicamente femminile – di coniugare la dimensione professionale a quella intima, affettiva, dell'esistenza, contemperandole con un equilibrio difficile da trovare in circostanze estreme, eppure riuscendovi, perché a non venire mai smarrito neppure per un momento è l'orientamento che viene dettato – e non può che essere così – dalla sfera intima, affettiva. È come se in questa sfera riposasse la "bussola" dell'esistenza: quella che un uomo, concentrato sulle acquisizioni esteriori, non possiede per istinto, come probabilmente una donna – un istinto che forse deriva da quello di madre. Esser costretti a vendere il catalogo di film della propria casa di produzione, non è affatto una sconfitta professionale, perché quei film hanno pur sempre avuto vita solo grazie a noi! È una delle cose di cui Grégoire non si accorge, confondendo i titoli di cui fregiarsi con le acquisizioni reali della vita che nessuno potrà toglierci.
In questo senso il film ci appare una risposta, per quanto involontaria, a un film da esso lontanissimo come "Il disprezzo" di Jean-Luc Godard.
Ambientati entrambi nel mondo della produzione cinematografica, il magnifico film di Godard, liberamente ispirato a un romanzo di Moravia, era una nostalgica ode all'elemento "femmineo", intrisa tuttavia di un'irrimediabile decadenza convogliata verso il suo esito tragico. "Il padre dei miei figli" di Mia Hansen-Løve si muove invece in direzione contraria, dalla tragedia alla vitalità, strappando a un destino di decadenza e facendo in qualche modo trionfare quel "femmineo" la cui polarità rispetto al "mascolino" veniva in Godard tematizzata, ma al contempo soccombeva, ne veniva schiacciata. Non sappiamo se sia un segno dei tempi, ma ci piace immaginarlo così. "Il padre dei miei figli" è un bel film che parla di donne, scritto e diretto da una donna: e si apre al futuro, se non proprio con ottimismo, con molta concretezza.
Il personaggio di Grégoire Canvel è modellato sulla figura realmente esistita di Humbert Balsan, un uomo estremamente stimato nell'ambiente culturale francese, scopritore di talenti che ha permesso di diffondere cinematografie poco conosciute come quelle del Medio Oriente. Humert Balsan è scomparso in modo analogo a Grégoire.
È molto interessante e originale il modo in cui Mia Hansen-Løve ci colloca dentro al mondo della produzione cinematografica, riuscendo a restituire le immense pressioni finanziarie in cui si muove l'industria del cinema, senza mai fare di queste pressioni assai concrete e schiaccianti il tema dominante del film, ma anzi trasmettendo la sensazione opposta, ovvero che il cinema come espressione artistica ha il compito, anzi il dovere – così come la vita – di librarsi sopra tali pressioni, per quanto in un equilibrio instabile e precario.
"Il padre dei miei figli" parla del bisogno di ricominciare: perciò la morte del protagonista arriva a metà film – non alla fine, né all'inizio. È il centro di una storia che prosegue, al di là di quell'evento.
L'attore Louis-Do de Lencquesaing, che interpreta magneticamente Grégoire, emana una sofferenza dissimulata ma profonda. Al personaggio di Sylvia, protagonista della seconda metà del film, Chiara Caselli sa imprimere forza, calma, intelligenza. E nello sguardo della Caselli c'è sin dall'inizio una malinconia latente che sembra rivelarsi proprio quando il resto di lei suggerisce il contrario.
Tutto il film è scritto e girato con una personalità la cui esperienza pratica del mondo e la cui maturità spirituale insieme, non cessano di sorprendere, se consideriamo i 28 anni dell'autrice e regista. È stato chiesto a Mia Hansen-Løve, se non le appare strano che una moglie non si accorga in tempo della dimensione dei problemi esistenziali di suo marito. La regista ha risposto con riferimenti estratti dal suo vissuto personale: anche il nonno della Hansen-Løve si sarebbe tolto la vita senza che sua moglie fosse riuscita ad accorgersi del suo malessere.
Mentre Grégoire è uno di quegli uomini che si tengono tutto dentro, dal canto suo Sylvia ha troppo pudore per domandargli cosa non va. Una situazione molto difficile da rappresentare in immagini, e che la Hansen-Løve è riuscita a restituire perfettamente, come riesce solo a quell'autore che sia profondamente consapevole di ciò di cui sta parlando. "Una cosa che mi ha sempre colpito" – continua la regista – "tanto in mia nonna quanto nella moglie di Humbert Balsan, è la forza eccezionale con la quale queste donne riescono ad affrontare la vita, senza al tempo stesso mai serbare rancore nei confronti del proprio compagno".
Un discorso a sé merita il tema dell'infanzia e la disinvolta padronanza nella direzione delle bambine attrici (di cui la maggiore, adolescente, Alice, è realmente figlia dell'attore Louis-Do de Lencquesaing). Il film, ha notato la regista stessa, è intriso di nostalgia dell'infanzia.
La nostalgia dell'infanzia ci appare in effetti un'altra chiave di lettura dell'opera.
L'infanzia è quell'età in cui la vita appare circonfusa di un'aura magica, in cui probabilmente il significato più intimo e dominante, vero, delle cose più importanti, in particolare degli affetti, viene percepito con intensità più profonda e integra. A nostro avviso la regista è riuscita meravigliosamente a restituire la nostalgia che un adulto può avere di questo aspetto dell'infanzia. Ci è riuscita nei momenti drammatici in cui, nella seconda metà del film, le figlie si interrogano sulla personalità del padre, sul suo affetto per loro, su come egli sopravviva in loro. Ma ci è riuscita anche, e forse al meglio, in alcune scene quasi elegiache della prima metà del film: quelle ambientate a Ravenna e a Bagno San Filippo, durante una vacanza di famiglia in Italia (che fa venire in mente il recente "Genova" di Winterbottom, analogamente incentrato su di un elaborazione del lutto parallela da parte di un genitore e di due figlie).
Per la Hansen-Løve Sant'Apollinare in Classe è un luogo che possiede qualcosa di atemporale; nei colori lindi e nella leggiadria, nella levità metafisica del suo mosaico absidale, c'è qualcosa che, "proprio come il cinema, ha a che fare con la nostalgia dell'infanzia".
Proprio di fronte a quel capolavoro dell'arte bizantina la regista ha messo in atto una delle improvvisazioni dalle quali, fuor di copione, ha fatto sgorgare la genuinità del suo film. Non ha voluto coinvolgere le bambine durante la fase di lettura del copione, per evitare che perdessero di spontaneità, e ha preferito girare scene distese, lasciate a una libera improvvisazione gestita con maestria dai suoi attori adulti, ricreando un'atmosfera il più possibile naturale e spontanea.
"Il padre dei miei figli" non è un film sulla morte, ma un film che si interroga sulla sopravvivenza: sia dell'amore, sia del cinema. E in tema di sopravvivenza del cinema, merita di essere menzionata la Teodora Film, che si è fatta carico di distribuire in Italia "Il padre dei miei figli": una casa indipendente dedicata al cinema d'autore, una delle (poche) realtà che ancora lottano in direzione ostinata e contraria, distanti dal mercato di massa omologato delle multisale. Proprio come Humbert Balsan, e come il protagonista de "Il padre dei miei figli" a lui ispirato.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 18/06/2010 16.55.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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