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Amare la vita e vedersela sfuggire via a trent'anni. Deve essere terribilmente insopportabile ed anche molto ingiusto, per un uomo giovane e di successo, venire a sapere che è molto breve il tempo che gli resta ancora da vivere, mentre tutto intorno la vita continua, mentre il tempo che scorre diventa ogni giorno sempre più incombente, ed il desiderio di lasciare una traccia di sè si fa sempre più impellente, come la necessità di dare un senso alla fine imminente, dedicando "il tempo che resta" a cercare di capire cosa fare di sè.
Due sono i temi che François Ozon affronta con questo film: il senso della sofferenza umana e l'omosessualità.
Ma mentre il primo pregna tutta la storia ed è espresso, in tutta la sua drammaticità, in modo profondamente umano, senza eccessi ma con ricchezza di sfumature narrative, il secondo non viene assolutamente problematizzato, costituendo solo un piccolo dettaglio, una caratteristica del protagonista come un'altra; il protagonista non ha avuto nessuna difficoltà ad essere accettato per quello che è, nè in famiglia e nè tanto meno nel suo dorato ambiente sociale.
Non è dunque l'orientamento sessuale del protagonista a costituire il nucleo principale della storia, ma il tema della malattia che lo condanna alla morte, con tutto ciò che di doloroso e di devastante procura nell'animo e nella mente di chi sa che è arrivato alla fine del viaggio; ma anche della nuova sensibilità e della nuova consapevolezza di sè che coglie chi decide di intraprendere l'ultimo tratto del percorso con un gesto d'amore verso gli altri, lasciando al di fuori del dolore chi si ama, un po' per non mostrare la propria fragilità e le proprie paure e un po', forse, anche per rimettere in ordine sentimenti ormai distrutti.
Ozon gira un film scabro, asciutto, di struggente tenerezza e di sottile ambiguità, senza mai cadere nel facile patetismo nè in soluzioni ricatatorie ed espedienti lacrimevoli, per raccontarci il breve futuro di un giovane uomo, Romain, ricco e affascinante, affermato, fotografo di moda, gay dichiarato e senza problemi, il quale, in seguito ad un malore improvviso, viene occasionalemte a sapere dal suo medico di avere un cancro diffuso non operabile e pochi mesi di vita.
Disattendendo i consigli del medico, per non dover soffrire il dolore di una disillusione ma anche perchè convinto che la fine del viaggio debba essere vissuto con pudore, Romain decide di non sottoporsi al calvario della chemioterapia e di lasciare che la malattia faccia il suo ineluttabile corso.
Inizia così un doloroso, seppur tenace, ripiegamento affettivo e una lunga e solitaria elaborazione del proprio lutto, per non mostrare ad altri la propia fragilità e le proprie paure.
Si ritira così nel suo appartamento parigino, lascia la professione contornata di successi, rompe il rapporto con Sacha, il suo compagno, per preservarlo dalla dolorosa verità e per impedirgli di amarlo ancora di più lo fa senza fargli conoscere il vero motivo, facendogli credere di aver conosciuto un altro).
Lo stesso fa con la sorella Sophie, stravolgendo il senso di affetti profondi, per quel senso di angoscia e di inflessibilità che scaturisce da sentimenti negati con estrema durezza, per non cedere nulla di sè e per lasciare chi si ama fuori dal dolore, per rimettere insieme tasselli del proprio vissuto e vivere con pudore il momento estremo in cui una vita si compie.
Poi però, quando ogni passione è creduta spenta, chiusi i conti con il proprio passato, nonostante la consapevolezza della vita che si esaurisce, Romain trova la strada di una sorta di riconciliazione con se stesso e una forma di sensibilità verso il tempo e verso la vita che gli resta, che per lui acquista il valore di una rieducazione sentimentale.
Fa visita alla nonna, alla quale, e solo a lei, confida la dolorosa verità; tenta un riavvicinamento sentimentale con l'ex compagno; si concede ad un rapporto pacificato ed adulto con il padre, senza dimenticare antichi rimproveri; cerca un recupero affettivo con la sorella, protagonista di dolorosi e teneri ricordi del passato.
Ma, soprattutto, viene preso dal desiderio di crearsi un futuro, nonostante la morte, per lasciare una traccia di sè attraverso un segno profondo di continuità qual è quello di concepire un figlio; lui che, in quanto omosessuale (ma forse non solo per questo), aveva sempre rifuggito da un simile pensiero, accettando di avere un rapporto sessuale con una giovane donna conosciuta per caso in un bar, cedendo alla richiesta sua e del marito, sterile, che desiderano avere un figlio.
Tutto questo, quasi identificandosi nei pudori esistenziali di Romain, è reso dal regista con un rigore essenziale, quasi assoluto, scegliendo di rendere allusivi e non prevaricativi fatti e situazioni che scaturiscono dalla rivolta dolorosa e silenziosa del protagonista nei confronti del destino, che la propria condizione (è giovane, bello e di successo) rende ancora più ingiusto.
Tutto è lasciato alla forza delle immagini ed alla crudeltà delle parole che sembrano sfociare nell'arido edonismo estetizzante, ma che in realtà nascondono, forse, il gesto d'amore più bello verso chi gli sta intorno, non consentendo al dolore di invadere anche loro.
Singolarmente e significativamente l'unico momento che il regista sceglie di narrare in maniera totalmente (e spiazzatamente) esplicito è la scena dell'amore a tre, quando Romain si concede alla donna (e all'uomo) del bar, che il marito non può rendere madre.
Una scena di straziane ambiguità e di latente amarezza, che può risultare disturbante ma che in realtà è necessaria per definire un personaggio visto nel momento in cui si sgretola la corazza di cinismo che da sempre si porta addosso, quando finalmente si apre alla vita e si dona totalmente agli altri, adesso che si sono spente le stagioni del cuore e può abbandonarsi all'oblio delle emozioni; adesso che è annullata ogni emozione e ogni volontà di rivolta verso il destino che gli ruba la vita. Proprio nel momento in cui ogni passione è apparentemente spenta la sua vita si illumina di una sensualità insperata, per risalire all'indietro nel tempo fino al primo momento, quando tutto ha inizio e i ricordi dell'infanzia si fanno tangibili, non solo perchè accaduti o perchè lo tocchino o lo feriscano, ma perchè ne è diventato, finalmente, consapevole: l'abbraccio tenero della nonna, la commossa carezza al padre, le foto scattate di nascosto alla sorella, il tentativo di riappacificazione a distanza, il ricordo del corpo del giovane amante.
Non è che Romain abbia accettato del tutto il proprio destino; ha solo trovato una sua forma di pacata rassegnazione e di austera serenità che lo porta ad abbandonarsi alla totalità delle emozioni che scaturiscono nei meandri selettivi e profondi della sua memoria (che cancella le tracce delle storie e delle ragioni, dei torti e della felicità vissuta e perfino di quello che si sa di se stesso e delle persone che apertamente o segretamente si amano), e di aspettare "il tempo che resta" in compagnia del bambino che fu.
Ed è con se stesso bambino, in quel luogo lontano nel tempo che Romain decide di tornare: su una spiagggia affollata che al tramonto frettolosamante si svuota, mentre il suo corpo, bagnato, pallido, emaciato, disteso su un asciugamani, affidandosi alla carezza del giorno che muore e ai ricordi crepuscolari della sua infanzia, aspetta che il cuore "smetta di battere", lui che tempo prima, portandosi la mano di Sacha sul petto, in una muta confessione gli aveva chiesto di sentire il suo cuore che batteva ancora.
Sorprendono, ancora una volta, l'asciuttezza stilistica e la ricchezza di sfumature narrative con cui François Ozon riesce a tratteggiare il mosaico emozionale del percorso umano e doloroso di Romain verso la sofferta presa di coscienza dell'aleatorietà della vita, fotografandone ricordi, emozioni, pensieri, le ultime pulsioni, gli ultimi gesti, con estremo pudore e sobrietà narrativa, senza tuttavia cadere mai nella indifferente insensibilità o in soluzioni pietistiche, a cui altri registi (visto il tema trattato) non avrebbero saputo sottrarsi.
Ma un merito, altrettanto convinto (e se possibile anche maggiore) va riconosciuto a Melville Poupaud, il rohmeriano ragazzo delle tre ragazze che su un'altra spiaggia e in altra stagione della vita era sbocciato ai sentimenti affettivi, il quale, per ironia della sorte, si ritrova qui ad interpretare un personaggio diametralmente opposto, che deve imparare ad elaborare il proprio lutto e riuscire a colmare il vuoto dell'anima che la notizia della fine imminente del viaggio gli ha procurato.
È veramente straordinaria la capacità di questo giovane attore di riuscire a dare spessore drammatico e di aderire, anche fisicamente, al suo personaggio, ed è assolutamente convincente quando, impenetrabile, patito, pallido, traduce in gesti carichi di emotività il percorso di chi si trova costretto a riorganizzare la propria vita secondo una scala di valori sconosciuti e inaspettati, senza mostrare la tenerezza delle proprie paure e la struggente commozione della propria fragilità.
Da ricordare pure l'interpretazione della grande Jeanne Moreau, che regge con grande verosimiglianza il toccante ruolo della vecchia nonna Laura, sul cui volto rugoso si riflette la dolorosità della disperata confidenza del nipote, quando, solo a lei, riesce ad esplicitare l'ineluttabilità della propria malattia.
Molto brava anche Valeria Bruni Tedeschi nel ruolo della cameriera che non riesce ad avere figli dal proprio marito, e il cui sorriso è uno squarcio di serenità che raffredda la drammaticità della storia.
Un film questo "Il tempo che resta" in cui momenti toccanti si alternano a momenti di più leggera bellezza e in cui neppure alcune cadute di tono e alcune forzature narrative riescono a scalfire la validità di un racconto colmo di emozioni sincere e carico di inespressa tristezza, che, tuttavia, non scade mai nella dolente luttuosità.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 16/10/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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