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Ancora una volta, in un film della danese Susanne Bier (autrice di "Dopo il matrimonio", 2006, e "Non desiderare la donna d'altri", 2004 – brutto titolo italiano di un film che si chiamava "Fratelli", e da cui è stato tratto un remake americano nel 2009, appunto intitolato "Brothers") ritorna il "sud del mondo", a rappresentare l'altra faccia della realtà: quella in cui la dimensione dei conflitti e della violenza è più intensa e sovraesposta. In essa ci vien dato di specchiarci, messi di fronte a un contesto dove non esistono filtri, per meglio intendere la nostra, di realtà, che di filtri invece ne ha sin troppi.
Anton (Mikael Persbrandt) è un chirurgo che lavora in Africa presso un ospedale da campo.
Nella sua Danimarca, è in crisi con la moglie Marianne (Trine Dyrholm), e ha un figlio adolescente – Elias – che, timido e impacciato, è la vittima prescelta dai bulli della scuola.
Elias viene incitato a reagire da un nuovo compagno di classe, Christian, che ha da poco perduto la madre, e cova un sordo rancore verso il padre, dalla severa morale protestante, rancore amplificato dalla convinzione che questi (interpretato da Ulrich Thomsen – forse il volto più noto del cinema danese) gli abbia malignamente mentito, nell'assicurargli la guarigione della madre.
Christian incita Elias alla rivalsa. La spirale di vendetta si estende a 360 gradi, e si fa sempre più pericolosa.
I genitori non capiscono in tempo e sottovalutano quello che si verifica di nascosto da loro, ad opera di due ragazzini perbene, apparentemente innocui, già segnati da frustrazioni profonde.
L'Africa e l'Europa. L'Africa sembra rappresentare, per Anton, anche una via di fuga. Pare che Anton percepisca che la sua vocazione possa realizzarsi appieno laddove il male si manifesta in forme di violenza estrema, laddove sente più forte un'emergenza che reclama la sua presenza. Quasi che il contesto tranquillo e civile (in superficie) della vita in Europa sia troppo spento per lui. In realtà l'Europa sonnacchiosa è solo meno decifrabile: l'Europa pacificata del secondo novecento, che ha eliminato le guerre, s'illude di aver abbassato il tasso di violenza, e ha la pretesa paternalista di portare soccorso a chi crede stia peggio.
La Bier insiste nel suo convincimento: l'Europa, continente tracotante nella sua Zivilization, non ha più anticorpi molto buoni per guardarsi dal male che coltiva in grembo.
Il caos è incontrollabile; ma non sembriamo accorgercene.
Il male dentro casa
Sembra impossibile impedire che l'aggressività generi aggressività, impossibile frenare un'escalation di violenza, una volta innescata. La legge del taglione domina gli istinti, trasuda attraverso gli interstizi delle nostre dimore edulcorate. E quale terreno più fertile per l'istinto di rivalsa, per la vendetta, dell'aggressività ormonale degli adolescenti?
Sui ragazzi la Bier ha la stessa visione disincantata che rivela Peckinpah nell'incipit de "Il mucchio selvaggio", quando – prima di una carneficina – si sofferma su un gruppo di ragazzi che tormenta un formicaio. I titoli di coda di "In a better world" (titolo ambiguo e persino ironico) scorrono sull'immagine inquietante e allusiva di un formicaio.
Anton predica il valore del perdono. Egli è il detentore della morale di fondo, che non possiamo non condividere. Ed è grazie a lui se le peggiori conseguenze, in fondo, sono scongiurate.
La "non violenza" tuttavia non sembra poter davvero avere la meglio: e se ce l'ha, è solo un risultato parziale, un contenimento dei danni. Il film per tutta la sua durata trasuda scetticismo a riguardo. E il finale è meno consolatorio di quanto appare. Che conforto può fornire la sconsolante immagine di bambini africani che rincorrono una camionetta di medici? O lo sguardo smarrito, angosciato, di Anton, che sembra aver perso per strada ulteriori certezze?
Il male può discendere anche dall'(incolpevole) "tradimento" di un padre che, pur in buona fede, ha mentito sulla salute della madre (un errore di paternalismo, ancora?). Ma com'è possibile prevedere che un gesto di così ovvia amorevolezza verso il proprio figlio generi conseguenze così atroci? Come è possibile prevenire il caos?
Può accadere che persino in una madre, sconvolta dacché il figlio è stato a un pelo dalla morte, affiori l'istinto bastardo della vendetta – e che ella dica, all'amico del figlio responsabile di quanto accaduto: "l'hai ucciso" (non è vero) – provocandone quasi il suicidio, tanto il ragazzo resterà schiacciato dal senso di colpa.
Questa scena, che negli eventi convulsi del film rischia di passare in secondo piano, è uno dei momenti chiave del film. Sembra quasi concepito dall'implacabile Kieslowski del "Decalogo", per come rimanda all'impossibilità, per l'uomo, di non far discendere il male dai propri gesti.
Padri e genitori sono assenti. Magari non colpevolmente: magari perché stanchi, perché legittimamente impegnati nel loro lavoro. La Bier è sottilmente spietata: basta un attimo di distrazione, perché nel suo universo si sfiori la catastrofe.
Altro che andare in Africa: gli equilibri della civiltà qui da noi sono terribilmente precari; il lupo è in agguato dentro casa.
Dimostrazione di una tesi
La sensibilità della Bier è notevole, soprattutto nel penetrare le psicologie dei personaggi, nel pedinarli e nel restituircene veracemente ogni sfumatura, tentennamento, vibrazione. Affiora però sempre, nell'assistere a un suo film, come il sospetto che stia dimostrando una tesi. E' il suo limite maggiore: quello che impedisce al suo cinema di farsi davvero grande, e, a lei, di dar vita a quei capolavori che i suoi film sono in potenza.
Esemplare in tal senso una sequenza memorabile.
Siamo in Africa con Anton. "Big man", uno spietato dispensatore di morte, è ferito a una gamba e si presenta, con la sua banda armata, all'ospedale da campo. Anton, contro le proteste di tutti i suoi assistenti ed infermieri – che odiano quell'essere malvagio, responsabile di quasi tutti i loro casi disperati –, decide di accoglierlo e di curarne la ferita.
Di fronte all'ennesima ostentazione di tracotante misoginia da parte di "Big man", il chirurgo cessa di proteggerlo: non può e non ce la fa più. Lo lascia in pasto agli istinti di rivalsa da parte di tutto lo staff del campo, che sfoga su di lui una sospirata vendetta (progressivamente fuoricampo).
Anton si fa in disparte, impotente di fronte al moltiplicarsi degli istinti belluini.
Di lì a poco lo vediamo parlare in webcam col figlio: è stanco, la comunicazione è disturbata, e non sente quel che il figlio vorrebbe rivelargli... Se avesse avuto orecchi, se non fosse stato in Africa, se non fosse stato così stanco e disilluso quella sera, forse avrebbe evitato quel che stava per accadere sulle sponde del Baltico.
Tutto molto bello, e reso con indubbia maestria e talento cinematografico. Tuttavia sembra così evidente che la Bier ci vuole dire: "si va ad aiutare popoli lontani, forse anche perché non ci si sente all'altezza di affrontare i più sfuggenti problemi che si hanno dentro casa. E questo è il prezzo".
L'impressione è che voglia (con una certa astuzia semplificativa) esaltare per contrasto, parlare – certo – soprattutto dell'Europa (si parla meglio di ciò che si conosce – e l'Africa sembra in buona misura un pretesto, per quanto molto verosimile).
Non è privo di fascino, comunque, che la regista danese dia ai nostri piccoli (grandi) problemi la giusta dimensione, puntandovi sopra i riflettori, e al contempo osservandoli in tutta la loro somma meschinità.
Senza dubbio ripetitiva, stavolta l'audace esperimento della Bier sembra sostanzialmente riuscito.
Il ritmo del film va in crescendo: come un razzo a più stadi, riserva per la seconda parte le esplosioni più forti (per quanto sia prevedibile che, su di una certa scena all'alba di una domenica mattina, sarebbe inaspettatamente comparso qualcuno a complicare le cose).
La Bier espone sicura le sue tesi; evita accuratamente eccessive cadute nel melodrammatico (cadute che sfiora pericolosamente). Fa anche affidamento su attori bravissimi: è in gran parte anche merito loro se i suoi film appaiono sempre così veri, così coinvolgenti.
Ma è come se le mancasse, più che il coraggio, la lucidità di arrivare alle estreme conseguenze. Lo dimostra il finale: Anton il chirurgo torna in Africa, turbato e pensoso. E quindi? Cosa è cambiato? Il film cerca alla fine di risultare digeribile allo spettatore (per espressa dichiarazione della Bier, lei non cerca di colpire sotto la cintura, non vuole estraniarsi il pubblico; il cinismo del connazionale Lars Von Trier – qualcuno dirà "per fortuna" – le è estraneo).
L'esposizione della tesi è quasi sublime, soprattutto per quanto riesce a innestarsi sulla realtà con grande verosimiglianza e una notevole cura delle psicologie. Non evita tuttavia che i personaggi vengano come lasciati interrotti. Rimane il vago sospetto che all'autrice piaccia parlare con toni forti di temi forti, senza andare completamente a fondo.
Cinema che merita un plauso, in ogni caso: sa mantenersi all'altezza delle sue ambizioni, e nello stesso tempo adotta i toni giusti per piacere al pubblico. Lo colpisce forte, senza stenderlo. Può anche essere un pregio. E non a caso, "In a better world" ha ottenuto il Marc'Aurelio del Pubblico come Miglior film, al Festival di Roma 2010, rassegna dove ha ottenuto anche il Gran Premio della Giuria.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 09/11/2010 16.31.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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