Recensione kundun regia di Martin Scorsese USA 1997
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Recensione kundun (1997)

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locandina del film KUNDUN

Immagine tratta dal film KUNDUN

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"Ci hanno portato via il nostro silenzio". La frase nel film è di uno dei collaboratori più fidati del Dalai Lama e viene pronunciata dopo l'invasione tibetana da parte dei cinesi di Mao Tse Tung. Una frase che dà l'idea del grande trauma subito da chi incarnava la cultura e la religione buddista nel 1949. Il territorio del Tibet subisce un passaggio forzoso alla cosiddetta madrepatria cinese perdendo definitivamente la propria identità. Film raro. Di grande spessore tecnico e culturale. Incentrato sulla storia del 14° Dalai Lama e sul tragico conflitto tra Tibet e Cina creatosi tra il 1949 e il 1959.

Straordinaria la capacità di Scorsese nel trasmettere pathos per immagini. Immagini dominate dal rosso delle toghe dei monaci e da un giallo forte, luminoso, riflesso dagli oggetti e dai preziosi del rito. Colori che portano ad un altrove che ci riguarda, coinvolgendoci lungo raffigurazioni etiche di grande raffinatezza e spiritualità. Un film che funziona perché molto curato sul piano dei tempi delle inquadrature. Inquadrature ricchissime di varianti prospettiche con riprese molto lente che consentono allo spettatore di cogliere i numerosi significati che le racchiudono. Grazie alla bravura del regista la pellicola trova nel montaggio e nelle riprese una scrittura altra che compensa le lacune della sceneggiatura. Lacune vistose sul piano dell'unità dell'argomento. L'argomento doveva riguardare in particolare la conoscenza del culto religioso buddista in un contesto di società in forte evoluzione. Ma il film oscilla indeciso tra un ottimo approfondimento visivo della cultura filosofica buddista e un'esposizione incerta della politica e della conflittualità del Tibet con la Cina. I contenuti della politica vengono schematicamente organizzati dal regista in sequenze brevi. Esse a causa di una brutta sintassi visiva risulteranno poco scorrevoli. La Cina viene vista da Scorsese come cinica violentatrice del Tibet, usurpatrice di una società che vanta un millennio di non violenza.

La parte più riuscita del film rimane quella ritualista. La cultura buddista viene scritta da Scorsese in pagine visive che risulteranno da antologia.
La regia dà quindi il massimo risalto alla componente estetica della sceneggiatura mettendo in secondo piano per impossibilità sintattica e difficoltà letteraria la complessa politica delle vicende dell'epoca. Vicende che appaiono perciò allo spettatore deboli e contraddittorie. Scorsese traccia con splendidi e luminosi piani sequenza dettagli di vita e ritualità del popolo tibetano più vicino al buddismo e aspetti inediti della colta casta sacerdotale. Una società vasta e di difficile conoscenza che vive alla vigilia della sorprendente invasione cinese del 1949 con molte insicurezze. Disastrosa la sua situazione economica.

Con questo film lo spettatore occidentale ha l'occasione di partecipare alla cultura spirituale del buddismo ma anche alla sua psicologia che ne è inseparabile. Psicologia che traspare in particolari precisi come ad esempio la richiesta del piccolo Dalai Lama di prendere il posto del padre a tavola. La cosa fa pensare a una società tibetana ancora sotto l'influenza edipica. Una società certamente dominata dalla figura paterna.
Attraverso splendidi sequenze della macchina da presa, da angolazioni di ripresa quasi impossibili lo spettatore entra, seppur provvisoriamente, in un mondo nuovo, finendo per trovare una sintonia spirituale con questa importante religione di pace e di civiltà. Notevole ad esempio la ripresa della sfilata del piccolo Dalai Lama di 4 anni durante la sua presentazione ufficiale al popolo buddista. Egli passa tra ali di folla ripreso alla sua stessa altezza e i volti della folla si abbassano notevolmente sullo schermo come effetti di un punto di vista condiviso con gli occhi del piccolo Dalai Lama.

Attraverso il film scopriamo una religione di convincenti sublimazioni poetiche che hanno un tasso di civiltà incredibile. Il buddismo appare come l'unica religione talmente ricca di cultura e civiltà da rispettare, spesso con amore, tutte le forme viventi della terra. Esemplare a proposito la scena del Dalai Lama bambino che separa con estrema delicatezza due grossi scarabei avvinghiati in un'ambigua lotta. Il piccolo Dalai Lama dopo averli separati li rimette in posti sicuri all'ombra.
Il film si svolge attraverso inquadrature molto lente e prolungate. Utilizza i piani sequenza, numerosi e studiatissimi, per rafforzare quel senso di realtà che porta alla impressione di presenza dello spettatore all'interno della pellicola. Le riprese aeree dall'alto, con zoomate di alta professionalità sulle bellezze alpine, si presentano nei momenti di svolta del racconto del film dando la sensazione di entrare di volta in volta in un nuovo capitolo. Grande è l'attenzione ai rituali buddisti che vengono ripresi con moltissimi primi piani di volti. Volti mai inespressivi, sempre ricchi di segni linguaggio che dicono qualcosa tramite le palpebre, le labbra, le gote, il movimento degli occhi. I rituali sono costruiti con un'oggettistica densa di presenze storiche. Essi trasmettono soprattutto il fascino misterioso dell'antico. E rilasciano all'occidentale, sprovveduto di cultura orientale, un senso di inadeguatezza del proprio vivere.

La struttura del rituale, così ben curata da Scorsese, fa pensare per reazione alla debolezza nei giovani occidentali della loro ritualità religiosa e culturale. Il rituale per Scorsese sembra un modo indispensabile, forse il più idoneo a comunicare qualcosa delle leggi e del fascino dello spirito buddista. Il rituale, infatti, mostra attraverso la sua struttura psichica conservata nell'inconscio dei sacerdoti e dei fedeli enigmi psichici profondi. Linguaggi un tempo parlati e poi abbandonati. Nodi psichici, crocevia di vecchie adorazioni. Nodi interpretabili soprattutto con la psicanalisi che Scorsese usa seppur inconsapevolmente. Ad esempio quando traccia, proprio attraverso l'articolazione del visivo, una logica che riguarda sia l'espiazione del senso di colpa verso il padre che l'affettività ambigua della comunità per la sua scomparsa. Al di là di ogni monoteismo. Una scomparsa che Scorsese riesce a trasmettere come conquista di un senso certo che diventa guida della società tibetana. Un senso donato dal padre, lungo regole e procedure normative rigorose che confermano il valore del religioso nel civile sociale. Un'educazione straordinaria. Qualcosa che rilascia come risorsa il privilegio di possedere uno scopo alto: produttore di civiltà.

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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 14/10/2005

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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