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"The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford" è tutto racchiuso in: "Tu vuoi essere come me o vuoi essere me?"
Nell'opera di Andrew Dominik schiavi della propria sorte si muovono rarefatti nelle immensità addormentate di un postmoderno western tutto adagiato nelle attese ovattate fra un'azione e l'altra, inarcato fra le molecole di un cielo accelerato, nelle deformate traiettorie degli sguardi da sfiorare, nelle sferzate flessuose sul grano che nutrono le pupille, negli spazi spalancati offesi dal vento e cesellati dal tocco immane di Roger Deakins.
La figura, il cinturone e il piglio imprevedibile di Jesse James si percepiscono in ogni volto lontano, in ogni stanza avulsa, in ogni spazio dilungato e sfocato, in ogni suppellettile estranea e malandata, in ogni conversazione mormorata. Lo stesso Robert Ford è l'agnello sacrificale dell'aurea mitologica di Jesse James come Jesse James è la vittima della psicosi da emulazione di Bob Ford. Entrambi vittime di se stessi e delle proprie immagini riflesse l'una nell'altra, entrambi inesorabilmente addentrati negli oscuri meandri della paranoia intrappolata a medesimi determinabili destini.
Robert Ford ha il viso infantile ed inquietante di Casey Affleck (la migliore interpretazione dell'anno), in grado di manifestare una gamma indescrivibile di sentimenti e ardimenti, dall'invidia all'orgoglio ferito e represso, dall'ingenuità tormentata al cieco determinismo, dal terrore della morte imminente all'insolente spavalderia. Brad Pitt è un altrettanto gigantesco Jesse James che si muove perennemente sul filo invisibile della follia, tra il pianto della fragilità e l'onnipotenza.
Le splendide ed aliene immagini catturate da Dominik (incipit dell'anno!) disegnano e rallentano il trascorrere del tempo, mettono in scacco e fuori fuoco le mosse e zoomano sulle pedine, incendiano le pause, si susseguono onniscienti come ritratti in bianco e nero di un tempo che decanta le sue movenze e le sue misuratissime parole, come scatti indulgenti e rallentati che si depositano addosso ai tessuti dignitosi, nel tormento delle ore notturne passate a frugare nella mente e a sospettare stregati dall'insonnia, sul chilo di metallo dei ferri nelle fondine incandescenti, nell'aria fumosa spostata dal moto delle locomotrici agganciate dalla macchina da presa, nelle occhiaie arrossate d'eroi codardi e di codardi eroici, fino agli spigoli, fino ai recessi reconditi, fino agli anfratti appartati e nascosti di una coscienza malata e troppo stanca per sostentarsi, messa al cappio dalla propria paranoia e pronta a salire sul patibolo domestico per consegnarsi al Mito e alla Storia.
La rappresentazione dei cieli e delle distese sotto di essi, fra l'ansiogena deformazione sokuroviana e l'ansia malickiana immobile che conflagra immanente nelle distese virginali delle estensioni, esplode nei silenzi e nelle movenze, nei canti empirei di morte prima e dopo la Fine, nelle bare dove si celebrano sepolcri imbiancati e vecchi/ nuovi miti, nelle vite che si protraggono oltre la morte tanto quanto la dipartita ne amplifica le gesta (Jesse James) e ne condanna ineluttabilmente il resto della mera sopravvivenza (Robert Ford).
Questo Cinema etereo ed incorporeo si annida per giorni nell'animo e sospende i giudizi, evoca pensieri lontani da avvicinare, sfiorare e solo accarezzare, riconcilia con il purismo della Visione e la sua arte sinuosa, visionaria, dilatata e devastante. Capolavoro.
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Recensione a cura di williamdollace - aggiornata al 02/01/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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