Recensione l'avventura regia di Michelangelo Antonioni Italia 1959
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Recensione l'avventura (1959)

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Premio speciale della giuria
VINCITORE DI 1 PREMIO AL FESTIVAL DI CANNES:
Premio speciale della giuria
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locandina del film L'AVVENTURA

Immagine tratta dal film L'AVVENTURA

Immagine tratta dal film L'AVVENTURA

Immagine tratta dal film L'AVVENTURA

Immagine tratta dal film L'AVVENTURA

Immagine tratta dal film L'AVVENTURA
 

"Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che
non siamo, ciò che non vogliamo."
E. Montale, Ossi di seppia

Due amiche, Anna e Claudia (Lea Massari e Monica Vitti), e il fidanzato della prima Sandro (Gabriele Ferzetti), partono da Roma per una crociera in yacht alle isole Eolie. A bordo insieme a loro c'è Patrizia (moglie del proprietario della barca), Raimondo (collega di Sandro), e un'altra coppia (Giulia e Corrado).
Durante una sosta presso l'isolotto di Lisca Bianca, si perde improvvisamente ogni traccia di Anna. A nulla valgono le ricerche e i soccorsi. Mentre gli altri vanno a soggiornare presso una villa vicino Palermo, Sandro e Claudia proseguono le ricerche in Sicilia, inseguendo un vago indizio.
Mentre l'indagine perde mordente, tra i due si sviluppa complicità. Claudia cede alle lusinghe di Sandro e la ricerca di un'amica e compagna sparita nel nulla e forse morta, si trasforma in un'"avventura".
Un'alba livida li sorprenderà entrambi, arresi e disillusi.

Quest'esile vicenda contiene una svolta densa di significati nella storia della settima arte (nella carriera di Antonioni marca il passaggio da una fase ancora riconducibile al retaggio neorealista a quella della piena maturità). L'influenza del film sul cinema internazionale, sulla cultura del secondo Novecento, è enorme. La strutturazione dell'intreccio appare ancora oggi spiazzante. Dalla rimodulazione del rapporto tra sfondo e figure al rilievo dato ai tempi morti, tutto è rivoluzione ne "L'avventura".

Il film costituì una novità talmente inusitata che al festival di Cannes del 1960 fu fischiato dal pubblico. Destò tuttavia l'entusiasmo della critica e degli altri cineasti: decine di personalità della cultura fecero cerchio attorno ad Antonioni stilando in poche ore un manifesto di sostegno. La Palma d'oro andò a "La dolce vita" di Fellini, mentre "L'avventura" ricevette il Premio speciale della giuria "per il suo rimarchevole contributo alla ricerca di un nuovo linguaggio cinematografico", oltre al Premio della giovane critica internazionale.

La nascita del cinema moderno

Il biennio 1959-1960 segna il passaggio dal cinema classico a quello moderno (dall' "immagine-movimento" all'"immagine-tempo", per dirla con Deleuze). Sono anni in cui si esplorano nuove potenzialità del linguaggio cinematografico, in cui la personalità del regista-autore si afferma come detentrice di una personale poetica veicolata da un altrettanto personale "sguardo". Si realizza pienamente insomma l'ambizione della "caméra-stylo" (espressione coniata da Alexandre Astruc nel 1948), ossia l'aspirazione che la macchina da presa potesse essere adoperata con la stessa personalità di una penna per scrivere. Si trattava per il cinema della rivendicazione di una dignità artistica pari a quella della letteratura.
E' il biennio in cui in Francia esplode la "nouvelle vague": quello in cui hanno esordito contemporaneamente Truffaut, Godard, Rohmer, Rivette e altri.
La novità di Antonioni è più radicale ancora di quella della "nouvelle vague": è accostabile al sisma che costituiscono per la drammaturgia classica i primi due lungometraggi di Alain Resnais, realizzati negli stessi anni ("Hiroshima mon amour", 1959, e "L'anno scorso a Marienbad", 1961).
Di fronte alla rivoluzione di Antonioni, l'andamento rapsodico de "La dolce vita" è appena una lieve novità: occorrerà attendere tre anni per assistere all'esplosione magmatica della materia narrativa che Fellini opererà con "Otto e mezzo" (1963). Nel frattempo saranno germogliate "nouvelle vague" in tutto il mondo in una irripetibile stagione di fermenti.

Lo stile di Antonioni avrà influenze innumerevoli negli anni a venire, in ogni Paese del mondo (assai debitore verso Antonioni è il taiwanese Tsai Ming Liang, per fare solo un nome). Così come di "alienazione", si inizierà a parlare di "antonionismo", anche in senso dispregiativo: ma pure l'atteggiamento dei detrattori, negativo o semplicemente ironico (è celebre una battuta pronunciata da Gassman ne "Il sorpasso", 1962), non fanno che certificare l'immediata riconoscibilità di uno stile e di una poetica.

Una rivoluzione stilistica

Quello di Antonioni è un consapevole e ispirato attacco agli strumenti narrativi tradizionali, allo scopo di far emergere qualcosa di diverso, non per il gusto della novità in sé, ma perché fosse espressione di una visione del mondo. Antonioni lavora, rimodellandoli, su struttura drammaturgica, tempi narrativi, composizione del quadro e sintassi cinematografica.

Ne "L'avventura", il senso di straniamento che discende da una struttura drammaturgica di per sé inusuale (mistery che perde consistenza, detection che si sfalda) è amplificato da raccordi temporali non sempre chiari tra le varie sequenze.
Il film appare suddiviso in un prologo romano e due blocchi narrativi (quello "eoliano" e quello "siciliano"). Già tra il prologo e la prima parte lo spettatore viene spiazzato. Veniamo infatti trasportati da Roma alle Eolie con una doppia dissolvenza, ma senza essere stati minimamente avvertiti sulla destinazione e neppure avvisati del momento in cui sarebbe avvenuto il cambio di scena.
C'è un'unica altra doppia dissolvenza nel film: è il solo, rapido segnale del passaggio dalle Eolie alla parte del film che si svolge sulla terraferma siciliana.
La collocazione delle due doppie dissolvenze indica una consapevole ripartizione della materia narrativa: ma sono appena dei cenni, che lo spettatore non distingue tra le varie altre dissolvenze. Il racconto è piuttosto un continuum narrativo, interrotto da ellissi che non vengono segnalate.
Mentre poi il segmento "eoliano" ha una scansione temporale riconoscibile (dura un giorno, una notte e un altro giorno), il secondo - privo di unità di tempo, luogo e azione - è frammentato e labirintico. In esso i luoghi (e gli spostamenti) vengono sempre meno segnalati (l'ultima sequenza si svolge a Taormina, ma la località non viene nominata).
Nell'ultima inquadratura si distingue l'Etna chiaramente innevato. Le riprese durarono oltre quattro mesi, dal settembre 1959 al gennaio del '60. Anche nella narrazione sembrano passati dei mesi: in realtà è trascorso meno di una settimana. Tuttavia, i mutamenti intervenuti, la disillusione progressiva - sottolineati da quella neve lontana - lasciano la sensazione che effettivamente il film, iniziato d'estate, si stia concludendo d'inverno.

La dilatazione dei tempi si accompagna a un uso straniante delle ellissi e conferisce al film una particolare immediatezza, un naturalismo maggiore rispetto a quello dato dai tempi del cinema classico. E' una narrazione "modernista", che si libera della rigida consequenzialità del racconto tradizionale: indugia su fatti apparentemente inutili e magari sottace eventi che sarebbero rilevanti per la comprensione dell'intreccio.
La ridefinizione del rapporto spazio-personaggi, a vantaggio dello sfondo, diventerà una delle caratteristiche del cinema di Antonioni da "L'avventura" in avanti.

Intanto, Antonioni sceglie lo schermo panoramico per farne un uso atipico. Concepito per fini spettacolari, lo schermo panoramico viene da lui adoperato come strumento destabilizzante per la messa in quadro. Antonioni affonda le figure nello spazio, mette in campo contemporaneamente una molteplicità di soggetti, spesso li decentra tutti. La figura umana cessa di essere il costante baricentro figurativo dell'immagine.
Si può ben dire che la scomparsa di Anna a Lisca Bianca segni la fine della centralità assoluta della figura umana entro uno schermo cinematografico. Durante le confuse ricerche della ragazza, alla brulla e inospitale superficie di un isolotto viene dato un rilievo che non si era mai visto al cinema.
E' perturbante accorgersi che questo avvenga nel preciso momento in cui la Natura diviene protagonista, rubando la scena all'uomo e portandosi letteralmente via una persona. Anna (la figura emotivamente più turbata, squilibrata rispetto alla razionalità di chi la circonda) sembra esser stata risucchiata dal paesaggio vivo e minaccioso che i turisti inconsapevoli pretendono di attraversare incolumi. Antonioni, così come ha voluto cospargere la superficie di Lisca Bianca di reperti archeologici che in realtà non si trovavano più lì (alludendo a un passato ancestrale, pre-moderno, della Civiltà), sembra aver attinto, con la scomparsa di Anna, alla mitologia classica, in cui spesso delle fanciulle vengono trasformate in elemento naturale, per essere protette da una minaccia (in questo caso, l'ottusa mascolinità di Sandro).
Non appena Anna sparisce, il clima muta bruscamente: si addensano le nubi, il mare s'ingrossa, il vento imperversa fortissimo (Eolie: isole del dio dei venti), si forma una tromba d'aria... Si può immaginare che Anna (di cui non conosceremo il destino) sia stata davvero rapita da forze naturali arrabbiate con l'uomo. Una suggestione che ben si accorda - come vedremo - con i temi dell'opera.

Quanto alla sintassi cinematografica, Antonioni fa un uso non convenzionale della soggettiva (spesso impiega false soggettive con l'imprevista entrata in campo del personaggio osservatore), allo scopo di frustrare l'identificazione dello spettatore con i personaggi rispetto ai quali vuole creare distacco (Sandro, soprattutto; mentre Claudia, con cui Antonioni vuole invece farci immedesimare, è portatrice di uno sguardo più classico).
Anche il campo-controcampo viene sabotato: non di rado i personaggi invadono il campo o il controcampo del partner. I movimenti di macchina si svincolano dai personaggi e si rendono autonomi, le angolazioni anomale di ripresa si moltiplicano, sino a suggerire in alcuni momenti (pensiamo alla sequenza del villaggio abbandonato) la presenza di un osservatore estraneo e misterioso.
Il montaggio alternato non alimenta la suspense, al contrario enfatizza i tempi morti (pensiamo alla sequenza iniziale sull'isola Tiberina, in cui Claudia attende perplessa Anna mentre quest'ultima si trattiene da Sandro).
I raccordi spaziali vengono insomma scardinati, liberati dalla funzionalità tipica per acquistare un'espressività nuova, disorientante. E l'esplosione del disorientamento coincide sempre con la scomparsa di Anna: è allora che vediamo tutti i personaggi vagare senza una meta sulla cima di Lisca Bianca, come se la sparizione del personaggio sin lì principale avesse fatto smarrire tutti in un territorio improvvisamente ostile.

"Un giallo alla rovescia"

Molti film di Antonioni, come "L'avventura", denunciano l'attrazione dell'autore per la struttura del "giallo" ("Blow-up", "Zabriskie point", "Professione: reporter"). Anche qui Antonioni scompagina le carte. Per tutto il corso del film, dopo la scomparsa di Anna, alterna ad episodi in cui Claudia e Sandro seguono una labile pista, episodi inutili ai fini della "detection", che spengono progressivamente la tensione sino ad annullarla.

Ma l'elemento di maggiore novità è l'assenza di uno scioglimento dell'enigma.

Con la sparizione di Anna si era assistito alla scomparsa del personaggio principale a film avviato: una scommessa narrativa non da poco, che può essere paragonata a quella di "Psyco" (firmato da Hitchcock nello stesso 1960). Tuttavia tale improvvisa scomparsa non destabilizza quanto l'assenza di un qualsivoglia scioglimento del mistero (cosa che Hitchcock avrebbe ritenuto una provocazione assurda). La scomparsa di Anna appare una sfida arrischiata alle strutture narrative dominanti (tanto più che a sparire è il personaggio interpretato della "diva" Lea Massari e non quello della misconosciuta Monica Vitti!), ma lasciarla deliberatamente senza una spiegazione era la cosa più difficile da digerire per i produttori. Antonioni incontrò molte difficoltà a trovare i finanziamenti e dovette iniziare le riprese con una versione della sceneggiatura dove era prevista una scena che gli fu imposta ma non girò mai, in cui verso la fine del film si veniva a conoscenza di quale fosse stato il destino di Anna.

Antonioni lascia il mistero in sospeso non per un gusto della trasgressione narrativa fine a se stessa, ma per indicare quanto sia altro ciò di cui importa.
Il suo film si pone nei confronti del genere "giallo" filmato, come "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana", pubblicato da Gadda nel 1957 (dove un'indagine non dà risultati e il romanzo stesso rimane interrotto), si pone nei confronti del genere scritto.
Antonioni, come Gadda e prima di Dürrenmatt, individua nei canoni del "genere" una manifestazione di razionalismo positivista, per cui la realtà è un puzzle che può venire perfettamente ricomposto. Al contrario, Antonioni costringe lo spettatore a confrontarsi con una realtà indecifrabile. E ci pone di fronte all'emersione di un malanno profondo, sotto la superficie di un mistero che, come un velo lacero, si è consumato sino a vanificarsi - per mostrare appunto altro.

"La malattia dei sentimenti"

Anna è una donna nevrotica. Inventa la presenza di uno squalo e fa fuggire tutti dall'acqua. Sin dalle prime scene del film era parsa ansiosa, insoddisfatta del proprio rapporto di coppia. Con Sandro manifesta il suo tormento senza spiegarglielo a parole. E' Sandro l'origine del malessere di Anna. E quest'ultima non mentiva, quando aveva detto al padre che non era Sandro, ma lei stessa, a non volersi sposare.
Fu Antonioni stesso a usare l'espressione "malattia dei sentimenti": "oggi il mondo è insidiato da uno scompenso gravissimo tra una scienza tutta proiettata nel futuro e un mondo morale irrigidito. (...) Cos'è l'erotismo oggi imperante in letteratura e nello spettacolo? E' un sintomo, il più afferrabile, della malattia dei sentimenti".

"L'avventura" è un film pervaso di erotismo. Esso esplode platealmente in due scene di massa, quella in cui Gloria Perkins viene intervistata a Messina (dove intervengono addirittura le forze dell'ordine a contenere i furori dei maschi eccitati) e quella, perturbante, in cui Claudia, lasciata sola per qualche minuto sul Corso di Noto, viene stretta e avvinghiata da sguardi viscidi, soffocanti, sempre più incombenti...
Sono i due momenti in cui la frustrazione sessuale latente trova uno sbocco teso e plateale. Ma il film è disseminato di tracce: le avances fatte in barca da Raimondo a Patrizia, l'attenzione del "principino" che seduce Giulia... E naturalmente i vari momenti di attrazione ossessiva da parte di Sandro per Claudia. Il cerchio si chiude: il "sintomo" che Anna nel suo malessere aveva percepito, si trasferisce su Claudia, che ne fa le spese.
Antonioni individua nella precarietà dei sentimenti l'instabilità dell'uomo moderno, il disfacimento di ogni ambizione di integrità morale. Intercetta i segnali di un edonistico vivere alla giornata, cui corrisponde la pulsione momentanea dell'eros. Ne scaturisce un disagio, un'inquietudine che la donna recepisce meglio dell'uomo.
Sulla superficie di uno smarrimento interiore, la pulsione erotica vive slanci privi di radici emotive e può trasferirsi da un soggetto a un altro. Per questo Sandro può passare da Anna a Claudia, quasi le donne fossero diventate intercambiabili.

Gli anni '50 erano ancora anni di immigrazione, dal sud verso il nord: Antonioni ci mostra invece una borghesia che si sposta dal nord al sud per svago, distrazione. In vacanza, nell'alterità rispetto alla routine quotidiana, si è più facili vittime della porosità interiore. Alla dimensione svagata della vacanza si aggiunge lo spaesamento entro la natura di questi borghesi urbanizzati: in una terra, la Sicilia, che appare arcana e esotica. "L'avventura" è anche un percorso dalla familiarità allo spaesamento: da Roma alle ruvide Eolie, fino al remoto entroterra siciliano.
Più lo spazio attorno si fa estraneo, più Sandro e Claudia si trovano nudi di fronte a se stessi.

Architetture

Sandro è un architetto. Ha deliberatamente sacrificato le proprie aspirazioni artistiche in nome del guadagno: in questo, è un tipo umano rappresentativo dell'Italia individualista e materialista del "boom".
Anche gli altri personaggi maschili lavorano nell'edilizia, per lo stesso committente Ettore.
Gli anni del miracolo economico sono anche anni di grande e sregolata speculazione edilizia. L'incipit, a Roma, è quasi teorico. La prima sequenza, nella quale Anna discute con il padre, si svolge in mezzo a palazzine in via di costruzione, pervasa dai rumori dei cantieri, con sullo sfondo, ben visibile, la cupola di San Pietro. A sottolineare quel che dicono le immagini, la conversazione tra il padre di Anna e un muratore di passaggio: "questa povera villa sarà soffocata tra poco", "e pensare che c'era un bosco qui", "lì ci verranno tutte case", "eh già! Non ci si salva più!".

"L'avventura è anche un discorso sull'architettura nell'epoca della grande speculazione edilizia" (F. Vitella). Un discorso incentrato su di una vistosa contrapposizione: le architetture del passato - gloriose, monumentali, fatte per durare - e quelle della contemporaneità - brutte, intensive, devastatrici per il paesaggio - che esauriscono il loro senso nelle logiche del calcolo e del guadagno.
Tale opposizione è resa esplicita dal confronto tra il barocco di Noto e il "paese fantasma" dove Claudia e Sandro si soffermano durante il loro tragitto. Quest'ultimo è un villaggio (Borgo Schisina) che era stato costruito nel 1950 dall'ERAS (Ente per la Riforma Agraria in Sicilia) e non fu mai abitato perché gli edifici erano squilibrati e disfunzionali. Antonioni lo utilizza in modo simbolico. Sembra l'inquietante scenografia di un quadro di De Chirico.
La sequenza che lo vede protagonista è una delle più ammalianti di tutto il cinema di Antonioni. La macchina da presa è lì ad attendere i due personaggi, la cui automobile entra nel quadro in campo lunghissimo (qui veramente le figure umane sono marginalizzate al massimo). I dialoghi sono incentrati sulla sinistra stranezza del luogo. "Senti l'eco? - fa Claudia - Come mai è vuoto?" "Chi lo sa - le risponde Sandro - Io mi domando perché l'hanno costruita..."
Dopo essersi accorta che un gruppo di case a valle è un cimitero, Claudia è assalita dal panico del silenzio, dalla solitudine e dal vuoto che domina quel luogo: "andiamo via!", urla a Sandro.

Horror vacui.

I due risalgono in macchina, fanno per allontanarsi. Ancora una volta sono ripresi in campo lunghissimo, ma stavolta la macchina da presa - collocata ad altezza d'uomo - si muove, lenta, autonoma: come se ci fosse una presenza segreta in quei luoghi, un fantasma, di cui non si sono avveduti (ma noi spettatori sì: e la vertigine è acuita dal fatto che guardiamo attraverso gli occhi di tale presenza invisibile). La macchina da presa, la presenza misteriosa, lo spirito di questo villaggio abbandonato, sembra respingere i personaggi fuori dal quadro. Che resta in effetti per qualche attimo vuoto, immobile.

Quasi per compensare con l'urgenza dell'erotismo la paura del vuoto (esistenziale) che si è manifestata presso il villaggio abbandonato, immediatamente dopo vediamo Claudia e Sandro persi nel loro primo amplesso, in mezzo ai campi. Come se la realtà della morte (Claudia era appena rimasta sconvolta dalla visione di un cimitero) avesse fatto scattare la molla dell'istinto vitale, con il deflagrare della passione erotica.

Sui tetti di Noto, di fronte alla magnificenza del barocco, Sandro confessa la propria insignificanza di architetto, la morte delle sue giovanili velleità artistiche. "Che splendore! Si preoccupavano degli effetti scenografici!", esclama: proseguendo col dire che in passato si costruiva per i secoli e oggi invece si ragiona in termini di dieci, vent'anni. L'architettura non è più fatta per durare, le prospettive si sono drasticamente accorciate.
Nell'architettura moderna, si cela l'ennesimo segnale della precarietà, della non durevolezza, della vanità del presente. Dietro ancora, si cela una profonda inquietudine.
Tutto è insignificante per Sandro. Una cosa vale l'altra. Come Claudia. O Anna. "Claudia, mi vuoi sposare?" le dice, proprio di fronte ai magnifici scenari di Noto, che lo hanno improvvisamente esaltato. Ma è solo un rigurgito di vitalità, come l'erotismo, a fronte di un sotterraneo sgretolamento.

L'idea di Antonioni sull'architettura moderna va insieme al suo concetto di malattia dei sentimenti. L'architettura, è lo scenario cinematografico di un esistenzialismo.

La donna che guarda

Antonioni ha sempre accordato una preferenza per le figure femminili, sin da "Cronaca di un amore" (1950, il suo esordio). Le protagoniste dei suoi film della maturità (a partire dalla Monica Vitti de "L'avventura", "L'eclisse" e "Deserto rosso") sono donne dalla spiccata sensibilità, a volte ipersensibili, la cui capacità di comprensione delle cose e delle loro sfumature appare più sofisticata di quella degli uomini. Sono donne ricettive, i cui momenti di sospensione o pura contemplazione raddensano in esse l'intensità emotiva e drammatica degli accadimenti, come fossero una cassa di risonanza emotiva.

Antonioni sostituisce Monica Vitti - propria compagna - a Lea Massari. Si tratta del lancio - poco comprensibile al pubblico italiano del tempo - di un'attrice "moderna", un personaggio problematico. E' l'ennesimo stacco rispetto alla tradizione classica. I capelli biondi chiarissimi dell'attrice, il timbro roco della sua voce sono caratteristiche devianti rispetto alla convenzione della donna mediterranea. Monica Vitti - che incarna un personaggio sensibile, fragile, introspettivo - è quanto di più lontano dalle donne solari, risolte, incarnate dalla classica diva italiana (come Sofia Loren, Gina Lollobrigida, Silvana Mangano o la stessa Lea Massari).

Claudia, ne "L'avventura", interagisce fisicamente con l'ambiente: in un modo plastico che al cinema non si era mai visto. A Lisca Bianca, ad esempio, si sdraia sulla scogliera, alla stazione aderisce con la faccia a una parete, nella villa di Palermo si appoggia agli infissi, si addossa alle ringhiere, agli stipiti, alle porte e alle ante. In tutto il film Claudia manifesta il bisogno tattile di appoggiarsi, restare aderente alla materia, quasi le stesse sfuggendo il contatto con la realtà.
Emblematico il piano-sequenza del pre-finale, nell'Hotel di Taormina. Claudia si sveglia nel cuore della notte, gioca con un cuscino, accende una lampada, controlla l'ora, si abbandona sul materasso, si siede, si alza, apre porte, prende una camicia dal bagaglio di Sandro, l'annusa, striscia lungo la parete, fa smorfie allo specchio, si mette carponi, spegne la luce, resta immobile a luce spenta.

Claudia è profondamente turbata dall'attrazione manifestata da Sandro nei suoi confronti. E oscilla: tra la diffidenza e la speranza che l'uomo possa davvero provare sentimenti per lei. Ma è anche combattuta dai sensi di colpa verso l'amica Anna. Il culmine, vertiginoso, del disorientamento lo raggiungerà nell'Hotel di Taormina, quando all'alba scoverà Sandro, nella hall, abbracciato a una donna di cui scorge solamente la chioma mora - e crederà allora essere Anna. Quando però la donna si volta, rivelandosi per la prostituta d'alto bordo Gloria Perkins, a Claudia si disvela la cruda realtà - e le crolla il mondo addosso.
Fino ad allora, i sensi di colpa avevano contrappuntato la sua recalcitrante corrispondenza per le attenzioni di Sandro: a Noto, mentre l'uomo entra in un albergo dove forse si trova Anna, Claudia rifiuta di entrare e si rifugia in un negozio, per la paura di vedere Anna. "Oh Sandro... che vergogna, che vergogna... hai visto? Ho cercato di nascondermi... mi sento meschina, mi detesto...". Il senso di colpa è il suo tormento, ma anche ciò che la distingue, la sua salvezza: a Taormina confessa a Patrizia: "ho paura che Anna possa essere viva". Si disprezza per questo, ammette che pensando che Anna sia morta non le viene da piangere... invece Patrizia vorrebbe assolverla, le dice che non si può esser sempre "melodrammatici".

Con l'attenzione riservata alla donna, Antonioni intercetta i cambiamenti nella condizione femminile negli anni '50 e avendo una netta predilezione per la sensibilità femminile, li considera come segnali positivi. La voglia di emancipazione di Claudia corrisponde al desiderio di autodeterminazione della donna moderna. Antonioni - dalla provincialissima Italia - coglie sul nascere il più profondo mutamento sociale dell'Occidente nel XX secolo.
Un fermento irrisolto e fragile. Claudia è fragile. I suoi sentimenti sono fondamentalmente ingenui. E sono ben rappresentati dalla canzone di Mina che canta in un mattino di esaltazione, a Noto - una canzone le cui parole svelano la soggezione alle logiche dell'universo maschile: "No, no, mai ti lascerò. No, no, sempre mio ti avrò. Saprò dire al mio cuore per te la più triste bugia, se negli occhi di un'altra i tuoi occhi perduti vedrò. Sì, sì, sempre ti odierò: ma no, no: non ti perderò".

Claudia è una donna che guarda. Sin dall'inizio è la prima testimone degli indizi di inquietudine di Anna; poi è lei a essere spaesata di fronte ai comportamenti degli altri, sino allo shock finale di fronte alla chioma corvina della prostituta americana.
Mentre lo sguardo di Sandro, maschile, è uno sguardo rivolto al possesso, che non coglie la realtà, quello di Claudia è uno sguardo riflessivo, che si sente osservato e si guarda osservato. Si pensi alla soggettiva che ha per oggetto il farmacista di Troina, che ci fa percepire - dal punto di vista di Claudia - l'interessamento mostrato da parte del farmacista, nonostante la presenza sulla scena di Sandro e della propria moglie.
Antonioni rovescia la condizione femminile: da oggetto dello sguardo e del desiderio, la donna diviene finalmente soggetto che guarda. Nel cinema, finalmente, non c'è più solo lo sguardo sulla donna, ma lo sguardo di una donna.
Lo sguardo di Claudia veicola una difficile e dolorosa presa di coscienza: assume progressiva consapevolezza di una pulsione erotica, maschile, priva di carica affettiva, nonostante le proprie illusioni.

Il finale, in cui Sandro piange su una panchina, senza più il coraggio né di parlare, né di guardare Claudia, attesta una rivincita femminile almeno nel senso di assistere - guardare - un uomo che si tormenta: la meschinità maschile che si arrovella penosamente nel rimorso. Uno sguardo - e finanche un gesto di compassione, una carezza - che consegna a Claudia il potere della pietà.

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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 04/03/2011 10.52.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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MARILYN HA GLI OCCHI NERI
Locandina del film MARILYN HA GLI OCCHI NERI Regia: Simone Godano
Interpreti: Miriam Leone, Stefano Accorsi, Thomas Trabacchi, Mario Pirrello, Orietta Notari, Marco Messeri, Andrea Di Casa, Valentina Oteri, Ariella Reggio, Astrid Meloni, Giulia Patrignani, Vanessa Compagnucci, Lucio Patané, Agnese Brighittini
Genere: commedia

Recensione a cura di Severino Faccin

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