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E' inutile. Inutile che in tanti ogni volta si sforzino di trovare parole di fuoco per demolire ogni film di Lars Von Trier. Inutile perché ogni suo nuovo film è una scoperta, un pugno nello stomaco, un concentrato di invenzioni visive, creative e intellettuali. Lars Von Trier non sta simpatico a molti e forse è per questo che sta simpatico a me.
Svogliato, furbo, sopravvalutato. Queste le accuse dei detrattori, accuse che a tendere l'orecchio fanno il tipico rumore delle unghie che tentano di arrampicarsi sugli specchi, come pagliuzze negli occhi che non vedono le travi, come montagne che partoriscono topolini. Prendendo per sola capziosità preconcetta abbagli a cui non credono nemmeno loro. Come si può altrimenti definire "svogliato e sopravvalutato" (Paolo Mereghetti) uno che in sequenza ti sforna "Le onde del destino", "Dancer in the dark" e "Dogville"? Come parlare di "formula vincente da riproporre in maniera ripetitiva e meccanica" (sempre Mereghetti) quando i tre film sopra citati non potrebbero essere più diversi l'uno dall'altro, tre capolavori che potrebbero appartenere alla filmografia di tre registi differenti, tre film sperimentali in cui la ricerca di nuovi linguaggi, di nuovi soluzioni registiche, lungi dall'essere sterili esercizi di stile risultano funzionali come pochi al racconto, amplificandone la portata dei contenuti già di per loro deflagranti?
Secondo capitolo della trilogia dedicata all'America, "Manderlay" è il proseguo di "Dogville". In fuga da là, dove poté sperimentare tutta la drammatica ipocrisia bigotta di una società perbenista e bacchettona, Grace (non più interpretata da Nicole Kidman ma da Bryce Dallas Howard, figlia di Ron) capita per caso in un altro paesino sperduto degli States dove ancora vige la schiavitù. Altra situazione delicata, altra situazione simbolica in cui il disegno generale è lucido e assiomatico come formule matematiche alla lavagna scritte con lo stesso gesso che qui traccia rettangoli e scritte sul palco nudo là dove ci si aspetterebbe case e oggetti scenografici.
Non era Dogma ricerca di autenticità, tentativo di fuggire dall'artificio cinematografico per portare la macchina da presa nel luogo in cui si svolge l'azione e non viceversa? Ebbene Von Trier continua a perseguire il suo obiettivo di verità giungendo alle estreme conseguenze: ribaltando le premesse, rifiutando l'artificio in nome del realismo arriva all'artificiosità, all'apparenza più irreale in cui la messa in scena si fa evidente nella sua mancanza non per citare gratuitamente Brecht ma perché egli ha capito che il cinema è finzione e che soprattutto la verità da intendersi come perfezione è possibile solo nel mondo delle Idee.
Quindi sta a noi, alla nostra mente condensare quello che c'è con quello che si presuppone ci sia, sta al nostro cervello sintetizzare in una scena sola i frammenti di immagini, parole e suoni propostici. Il non finito michelangiolesco funziona allo stesso modo: accennare, abbozzare una forma nel marmo perché poi la mente faccia il resto e ricomponga le lacune come in un miracoloso puzzle. E il miracolo avviene. Von Trier il provocatore, il cinico, il nevrotico, quello che fa impazzire gli attori (rivolgersi a Bjork), quello che arriva a Cannes con l'Internazionale socialista, quello che si dice abbia fatto uccidere realmente l'asino nel film per poi tagliare la scena al montaggio, quello lì insomma che molti odiano e molti amano, è uno che ha le idee ben chiare, le difende senza mezzi termini e solo per questo credo meriti rispetto. In un'epoca di retorica e morale dominata dal MOIGE e Famiglia Cristiana ancora mi vengono i brividi a ripensare a Grace che ordina lo sterminio di tutti i bambini a Dogville... "Manderlay" non è da meno. L'obiettivo è sempre l'America, l'atto d'accusa è ancora uno sparo, un fendente violento e diretto che mira dritto al centro del bersaglio.
Nei suoi stereotipi e nelle sue stilizzazioni il film è una metafora mordace che sprizza sarcasmo da tutti i fotogrammi di una società che finge di esportare democrazia per creare altre dittature, della condizione dei neri americani per i quali sarebbe preferibile la vecchia schiavitù che una libertà solo nominale, dell'americano medio, ingenuo e puritano che ancora si attacca alla bandiera coprendosi gli occhi di ideali contenuti nella prosa retorica della costituzione, metafora che si fa implacabile quando a mo' di favola, nel raccontare l'emancipazione dei poveri schiavi da parte della giovane bianca idealista, ricostruisce il percorso che ha portato alla creazione delle democrazie occidentali con le conseguenti degenerazioni cui conduce un capitalismo senza freni. Qui Von Trier è spietato: gli basta una disputa idiota (che ora è?), il principio fondamentale sui cui si basa il concetto di democrazia, (la maggioranza!), per prendersi gioco di quelli che con questa parola ci si puliscono la bocca e di tutti coloro che ancora ci credono. Noi dovremmo saperne qualcosa...
Se ciò non bastasse il colpo di grazia deve ancora venire, durante i titoli di coda con le immagini delle atroci persecuzioni ai danni dei neri americani sulle note allegre di Young Americans di Bowie. A tutti quelli che sventolano orgogliosi e compiaciuti la bandiera stelle e strisce: God bless America!
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Recensione a cura di mirko nottoli - aggiornata al 21/11/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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