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La memoria. E' questo il termine primo del cinema di Resnais.
La memoria: da opporre all'oblio, il "qualcosa" al nulla, il momento vivifico all'eternità annientatrice.
Ma è un momento tragico, spesso, e un "qualcosa" di orribile.
Non è Hitler, che di proposito in "Notte e nebbia" non viene nominato, il colpevole. Non è un nome o un elenco di nomi.
E' l'umanità, il fratello, il simile, il conterraneo, il convivente.
Chi è il responsabile? Non il Kapo, non l'ufficiale: "Io non sono responsabile".
La memoria, storica e soggettiva, che troverà magnificamente incontro in "Hiroshima mon amour", e che s'inoltrerà, nel corso della carriera artistica del regista, proustianamente in un'esplorazione della coscienza individuale; ha qui forma di un lamento collettivo, di una querimonia dura e commiserevole.
Le prime immagini, a colori, ci mostrano un lager oggi (siamo nel 1955, Auschwitz, dieci anni dopo la fine della guerra) mesto e desolato. I campi aperti sono sfiorati dal filo spinato.
L'erba ha recriminato il proprio posto in quei luoghi, tempo prima calpestati, sotto un cielo livido, senza passione. Cresce sopra i binari, s'insinua nelle crepe dei ruderi carcerari, che assomigliano ora a vecchi capannoni o a grosse fabbriche in disuso. Ha desiderio di cancellare e far dimenticare: "l'acqua degli stagni nel cuore di gennaio è fredda e opaca come la nostra cattiva memoria".
E' l'appello di Resnais a non dimenticare, a non lasciare che i segni del tempo affossino quel che resta, ancora visibile, di ciò che è stato commesso. A non permettere che la vergogna ci porti ad accantonare piuttosto che a indagare, che a domandarci, che a documentarci, che a conoscere.
Alle prime sequenze seguono brevi filmati di repertorio della Riefenstahl, la regista del regime, sull'avvento del fenomeno nazista, di rara veemenza, celebrativi e movimentati. L'autore, per non perdere nulla per strada, decide così di rispettare la cronologia dei fatti.
Ci vengono poi mostrate concisamente le persecuzioni subite dagli ebrei (ma neppure viene specificato che si tratta di ebrei, la vicenda è ampliata a pena dell'intera umanità), gli arresti in massa, i deportati ammucchiati e pressati nei vagoni dei convogli e trasportati come bestiame.
Ci viene proposto l'incomodo e tragico viaggio che approda ai campi di sterminio; costruiti a discrezione dell'immaginazione del progettista - dice con amaro sarcasmo la voce narrante - nei vari stili: alpino, garage, giapponese, senza stile.
Lestrithov, Oranienburg, Auschwitz, Neuenghaus, Ravensbruck, Dachau.
Quello di Resnais è uno sfogliare rapido, ma accurato, la storia recente dei campi di concentramento, sottolineandone le parti per così dire "emotive", che più riescono a imprimersi nello spettatore.
Il testo del commento, affidato a un uomo che quegli orrori li ha vissuti, Jean Cayrol, ha accenti letterari, è pacato e quasi distaccato, rispettoso del proprio e dell'altrui dolore.
Questa scelta, come quella della musica in sottofondo volutamente non drammatica, appare come la contrapposizione d'una fiera dignità umana alle immagini disumane dei soprusi, dei supplizi e delle umiliazioni subite dai prigionieri che ci vengono mostrate.
La telecamera s'avvicina lenta, cautamente, riguardosa al lager che riposa in una pace che diventa pensosa. Le fluenti carrellate scorrono sopra gli oggetti ora abituati alla quiete, al silenzio, poco tempo prima frastornati dalle grida dei deportati, dalle urla dei soldati tedeschi, dai colpi di fucile, dal cadere dei corpi immiseriti.
Se potessero parlare, confesserebbero tutto l'orrore a cui hanno assistito. Ma non hanno parole, lacrime. Le parole dobbiamo metterle noi, che torniamo a visitarle; tocca a noi, in quanto uomini, il dovere di compiangere.
Quegli ambienti sono in questo giorno sgombrati dai turisti, transitati appena dal passare della cinepresa-memoria, che diverrà comune soltanto dopo che quella individuale ne avrà preso coscienza.
Resnais vi frappone le fotografie di allora - come ricordi che riemergono - scattate dai tedeschi stessi; sono immagini agghiaccianti di quel tempo addietro, di quegli uomini che, "se questi sono uomini", venivano rasati e numerati, denudati e annichiliti, torturati e massacrati, vestiti di una divisa a righe e privati d'ogni sorta di libertà civile, fisica e morale.
Il lager torna in questo modo a rivivere, a operare e a brulicare d'anime sofferenti. Con questa operazione si vuole opporre alla tranquillità obliosa di oggi il silenzio assordante di ieri.
Il documentario procede nell'alternarsi continuo di questi due tempi.
Da una parte il presente (a colori e spopolato) è rappresentato mediante questo scorrere della telecamera che, oltre ad assumere il valore d'una visita coinvolta e interessata, dà il senso del tempo che fugge ad ogni istante, d'una memoria che è in perpetuo movimento, del continuo trascorrere e mai sostare delle cose e dei sensi.
Dall'altra - eppure compenetrato al momento attuale - il passato (in bianco e nero, affollato), è una serie d'immagini perlopiù fisse, istantanee, tragiche, torrenziali, scioccanti - scattate all'interno dei campi di concentramento e reperite attraverso un accurato lavoro di ricerca - dei corpi straziati, scavati, scolpiti sino alle ossa.
Solo ciò che è stato può essere immobile, se noi ci fermiamo, per essere contemplato.
Talvolta, alcuni di quegli oggetti del presente su cui indugia la telecamera, si sbiadiscono, vengono assunti per brevi momenti dall'atmosfera del passato, e allora tale corrispondenza si fa più comunicativa, meno distante.
"Notte" come terrore, come dimenticanza, come il terribile olocausto che straripò dal centro dell'Europa; "Nebbia" come l'appannarsi dei ricordi, come il disorientamento dei colpevoli e degli innocenti, come i vapori delle camere a gas.
"Nacht und Nebel", con questa espressione venivano contrassegnati i prigionieri.
Alain Resnais è giunto in Polonia in questo giorno mite, è entrato nel complesso concentrazionario di Auschwitz, è deciso a perlustrarne gli ambienti più significativi, gli oggetti più pregnanti, a considerarne ogni particolare e a ripercorrere attraverso questo la cronografia di tutti i lager, farne un memoriale, a renderci attenti, a proporsi da guida a noi che seguiamo il percorso.
Rivediamo le travi dei letti su cui si stendevano ammassati i deportati - segnati dalla fame, dalla fatica, dalle bastonate subite, dallo sconforto, dalle notti minacciose vissute nel terrore - rivediamo le latrine dove si scaricavano le zuppe diuretiche, delle quali ogni sorso poteva significare un giorno in più di sopravvivenza.
Rivediamo un edificio, il centro medico, preghiera di ogni prigioniero: accederci voleva poter avere un letto per una notte, forse un pasto. Molti divoravano le proprie medicazioni.
In realtà, si andava incontro ad atrocità d'ogni genere: nel centro chirurgico limitrofo i malati venivano usati come cavie; avvenivano mutilazioni, ustioni, torture, avvelenamenti, esperimenti farmaceutici.
Un altro edificio serviva da prigione: "Inutile raccontare ciò che avveniva al suo interno; i condotti d'aerazione non trattenevano le grida."
Intorno i comandanti avevano edificato i loro alloggi borghesi, trascorrevano una vita agiata e mondana, con le loro famiglie. Come potevano? Accanto a tutta quella miseria, a tutto quel soffrire, a tutto quell'orrore.
Viene documentata la visita di Himmler venuto a discutere sulla soluzione al problema del sovra-affollamento nei lager. A ciò sarebbe servita quella baracca che a prima vista appariva come tutte le altre.
Gli internati venivano fatti spogliare. Il gas fuoriusciva dalle docce. Sul soffitto sono visibili ancora i solchi delle unghiate.
Il forno crematorio, oggi una costruzione spenta adattata all'immagine di una cartolina - e alla cui realizzazione provvidero gli stessi condannati - bruciava centinaia di cadaveri.
Nulla veniva sprecato. Resnais ci mostra una serie di accumuli: gli effetti personali divisi e ammucchiati dei prigionieri; magazzini sconfinati di roba; "granai" di capelli, di scalpi; distese come i campi d'erba, ammassi come i covoni. Con le ossa si provava a ricavare concime. Con i corpi si produceva sapone. Con la pelle materiale per la scrittura. Corpi scheletrici o decapitati s'affastellavano ovunque.
Ciò offre il senso della moltitudine e dello sfruttamento immane, orrendo, immondo; le proporzioni mostruose e la natura disumana dello sterminio.
Sono accumuli riesumati dalle foto d'archivio quali testimonianze, nuovamente da smaltire, ma solo dopo essere stati assimilati dalla nostra coscienza.
Perché la fine della guerra non è una liberazione. Quando gli alleati aprono le porte dei lager, si trovano (e anche noi ci troviamo) dinnanzi a uno scenario traumatizzante, indescrivibile: solo in quel momento sarà svelata al mondo esterno la strage, l'inferno che ardeva dentro i recinti, gli atroci caratteri del genocidio.
Le ultime sequenze della pellicola (che fu presentata e subito ritirata dal festival di Cannes del 1956, in quanto considerata, seppure mantenga piuttosto un approccio di tipo umanistico sui fatti raccontati, politicamente scomoda) circondano alcune macerie d'una struttura crollata: rovine che sono ancora una volta la nostra cattiva memoria, pietre che sono quel che potrebbe restare di quel passato insepolto, d'un museo precario, d'un cimitero che, osservato da un cielo invernale, si chiude e tiene imprigionate milione di anime, se nessuno vi torna a ricordarle, illacrimate.
"Fingiamo di credere che tutto ciò è di un solo tempo e di un solo paese, e non pensiamo a guardarci attorno, e non sentiamo che si grida senza fine".
Oggi i ghiacciai si vanno sciogliendo. Il livello dei mari, attorno ai continenti, si alza a dismisura. Quasi il pianeta avesse desiderio di risommergere tutto, di dimenticare - ma non fa che reagire alle violenze subite.
Troppo tardi, di nuovo, ce ne accorgiamo. Bianca ancora, la luna - nostra vicina del cosmo - guarda di sotto il mondo, fatto insanguinato. Millenni sono trascorsi da quando l'uomo ha fatto la sua comparsa sulla terra: e sempre guerre, torture, massacri, esecuzioni, conflitti, stragi.
Quando miglioreremo? L'universo preme il suo infinito sulle pareti della nostra atmosfera. Vorrebbe entrare, forse, e fare del nostro il suo niente: ricondurre il tutto ad una questione di stelle, incandescenti meteore, orbite, supernove.
Eppure, in qualche modo, la vita resiste. Ah noi che dovremmo tenerci in questo sedimento sfuggito al nulla, darci soccorso l'un l'altro, confortarci.
Avremmo dovuto esserne il vanto: se potesse, ci scrollerebbe via come il peggiore dei suoi virus, questo "atomo opaco del male".
Tardi, perché non sia tardi, e del nostro passato non rimanga che notte e nebbia; a dieci anni dalla fine della seconda guerra mondiale, Resnais ha sentito il dovere, coinvolgendo anche noi, di fermarsi a ricordare, in questo che "non è soltanto un film di reminiscenze" (come dichiarerà l'autore del testo Cayrol); poiché come ci suggerisce l'ultima frase del documentario, le immagini che vediamo sono traducibili a vari tempi e a vari paesi, nondimeno ad oggi, dove spesso si finisce per non ascoltare, e si preferisce - in qualsiasi momento - ai gemiti le note di una allegra musica, al fermarsi a meditare il correre, e il silenzio ai richiami di quegli uomini che attorno a noi gridano senza fine.
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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 21/12/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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