"E mi dica Madame Evrard... è stata una vita meravigliosa la Sua?"
"E' stata la Mia vita."
Alain Evrard (Vincent Lindon), ex camionista quarantottenne, appena uscito di galera dopo aver scontato una condanna per contrabbando, si trova costretto a vivere sotto lo stesso tetto con la madre, l'anziana e composta Yvette (Hélène Vincent), in un'imperturbabilità silenziosa.
La convivenza forzata e la comunicazione limitata ai minimi termini sfocia spesso in discussioni violente che si alternano a stati di apparente quiete tutti sempre contraddistinti da un distacco che viene da lontano.
Il ritmo del film non si spezza mai, il ripetersi di gesti quotidiani, riti distratti e all'apparenza insignificanti come il sedersi a tavola insieme, il prendersi cura dell'amata cagnolina Carlie, sono i pochi punti di contatto della coppia; a volte risultato di ironiche gag, altre conseguenza unica di scontro.
Tutto scorre con una sobrietà disarmante anche quando Alain scopre che la madre è affetta da un male incurabile.
L'inettitudine e la ruvidità di Alain (è incapace di tessere rapporti amorosi, di mantenere la calma, di riscattarsi) si contrappongono alla compostezza e alla pignoleria della madre (sola, attenta all'ordine, sicura di quello che vuole). Le mancanze, la fragilità appena percepita, le caratteristiche di uno o dell'altro attore però non infastidiscono, non portano a riflettere, a parteggiare per una o per l'altra posizione, a chiedersi se sia giusto o sbagliato; malgrado i lunghi perfetti silenzi non c'è tempo di pensare, non ci viene nemmeno chiesto.
Lo spettatore è spettatore e rimane tale, si assiste finalmente ad una storia vera, dove la vita continua esattamente come il giorno prima e la festa per l'addio al mondo sono un bicchiere di prosecco e un pezzo di torta con lo storico vicino di casa, dove si fa ancora la composta di mele di sera, dove non si sfrega la lampada di Aladino per esprimere l'ultimo desiderio prima di morire, ma si ha solo quell'innato, represso bisogno di comunicare all'altro l'eco tormentosa di un amore mai espresso.
Il regista non si fa portavoce di nessuna battaglia e non lancia nessun messaggio militante a favore o contro l'eutanasia; il termine "eutanasia" (che nel caso seguirebbe solo il significato etimologico di "buona morte") non è appropriato, nel film si deve parlare di suicidio assistito, ma ai fini della continuità narrativa questa differenza non fa nessuna differenza.
Anche se Yvette è malata, anche se Yvette sceglie di essere aiutata a morire poiché desidera il suicido di fronte alla certezza dell'inarrestabilità della suo male, "Quelques heures de printemps" non è un film sull'attesa della morte. La malattia e il suicidio assistito sono puri elementi narrativo-strutturali che servono per accompagnarci al momento topico del film, ma solo ed esclusivamente perché siamo arrivati al finale: non aspettatevi fuochi d'artificio, non servono.
Riusciranno ad incontrarsi madre e figlio? Riusciranno finalmente a dichiarare il loro amore?
Non si esce mai dai binari, per scelta: i numerosi piani sequenza, la linearità, lo stile asciutto e preciso, le immagini registrano la vita dei personaggi (probabilmente conviene utilizzare il termine "persone") che si muovono sullo schermo al ritmo delle loro stesse emozioni, lentamente ma senza noia.
Il film smuove, colpisce, commuove, grazie a una calibratissima sceneggiatura e alle perfettamente riuscite interpretazioni attoriali, perché non aggiunge nulla di più alla narrazione della realtà e alle volte fa male rendersi conto di quanto si sia incapaci ad esprimersi, soprattutto sentimentalmente.
Il bello è che ti puoi alzare dalla sedia senza l'amaro in bocca e senza la sensazione di miele sulle dita.
"E mi dica Madame Evrard... è stata una vita meravigliosa la Sua?"
"E' stata la Mia vita."
Vivere e morire con dignità.
Brizè riesce a non aggiungere dolore al dolore; emoziona il pubblico in maniera delicata ma prepotente, senza far piangere i suoi personaggi.
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Recensione a cura di Aenima - aggiornata al 17/10/2012 16.36.00
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