Recensione ran regia di Akira Kurosawa Giappone, Francia 1985
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Recensione ran (1985)

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Migliori costumi (Emi Wada)
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Migliori costumi (Emi Wada)
Migliore regista straniero (Akira Kurosawa)
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Migliore regista straniero (Akira Kurosawa)
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locandina del film RAN

Immagine tratta dal film RAN

Immagine tratta dal film RAN

Immagine tratta dal film RAN

Immagine tratta dal film RAN

Immagine tratta dal film RAN
 

Ciò che indica con il manico della sua spada, in una delle sequenze iniziali, ai propri figli Hidetora, Signore supremo del feudo, non è solo un regno materiale. E' un ordine mentale delle cose. Uno stato anche interiore non più fermo nei suoi domini, sebbene ancora non se ne renda conto.
Egli sembra segnalare, con precisione e fierezza, due castelli, la vastità delle sue terre, i loro confini, eppure l'inquadratura bassa non ci mostra che un cielo sconfinato, indefinito. Cosa nasconde? Una pace che fu assalita, conquistata e sottomessa. Ne fanno accenno le parole dello stesso Hidetora. L'alba di questo giorno fu alimentata da sangue e fuoco, da morte e distruzione. Tale sarà il prossimo tramonto.

Solo dopo avere cacciato si può gustare la carne del cinghiale, solo dopo che la freccia è scoccata. E finito il banchetto, presto la fame ritorna. Bisogna rimontare a cavallo, impugnare nuovamente l'arco.
Così la caccia al cinghiale, con cui si apre "Ran" di Akira Kurosawa, è anche l'introduzione al motivo della guerra, ma è in primo luogo la rappresentazione di un rito e della tradizione, metafora di quell'ordine soltanto presunto e che ora dimora nelle terre e nella mente di Hidetora.
Nel vasto paesaggio collinare che costituisce il primo scenario, spalancato sotto un cielo luminoso, erboso ma spoglio, egli sta comunicando ai convocati la propria decisione di abdicare a favore del primogenito, Taro, al quale andrà il potere del primo castello, e di consegnare il secondo e il terzo rispettivamente a Jiro e Saburo, gli altri suoi due figli. E' un momento che dovrebbe svolgersi in assoluta armonia, nel rispetto di ogni ordine e disciplina. Come ci suggeriscono la simmetria delle inquadrature, la compostezza dei quadri, soprattutto l'organizzazione cromatica: nella semplificazione dei tre colori primari, rosso giallo e azzurro, ben distinti e complementari, si stagliano i costumi dei tre figli. Bianco è invece il vestito dell'anziano padre: bianco è la somma di tutti i colori.
Questi elementi riferiscono un'armonia, non in sostanza robusta quanto appare, che già si spezza come le tre frecce legate insieme: nell'incubo premonitore del vecchio Signore, nelle parole di disappunto del terzo figlio Saburo alla comunicazione del padre, che per quelle parole viene ripudiato.

"Ran", traducibile con il termine caos, stabilirà il suo dominio. Come aveva avvertito Saburo, i figli si scaglieranno contro il padre, contro i propri fratelli, abbagliati da quella fame di potere che accecò in giovinezza il Gran principe prima di loro. Gli incendi del futuro si uniranno a quelli passati. Combatteranno tra loro eserciti dello stesso feudo, uomini dello stesso sangue. Quella prima freccia, scagliata dall'arco di Hidetora contro una guardia di Taro, ne esorterà dietro a sé altre centinaia. Saranno follia e delirio, guerra e rovina, odio e vendetta.

Con "Il trono di sangue" Kurosawa aveva già tratto spunto da un dramma di Shakespeare, il "Macbeth". Con "Ran", dopo quasi trent'anni, torna a rivisitarne in maniera originale un'altra opera, il "Re Lear". Sono tra i risultati cinematografici più alti mai raggiunti in questo ambito, accanto alle grandi trasposizioni di Orson Welles.
In "Ran" la vicenda del "Re Lear" è riadattata all'epoca feudale giapponese, fusa con le suggestioni e le maschere del teatro N?. In particolar modo nella prima parte del film, i costumi sgargianti dei personaggi, come detta quest'antica forma teatrale, si muovono con aggraziata lentezza in scenari disadorni, contrapponendosi in tal modo alla possanza delle armature e delle successive battaglie. Anche tradizione artistica e realtà storica, bellezza e desolazione si fondono in "Ran". Sono elementi rimodellati al fine di rileggere la tragedia shakespeariana ponendo nuovi accenti, secondo la propria cultura e il proprio gusto, a ciò che resta il complesso nucleo centrale: la natura ingannevole, distruttiva e autodistruttiva dell'essere umano.
In chi ha il potere di decidere e comandare, attraverso queste vicende di re e principi, l'umanità è messa alla prova: se l'uomo sa concepire un tipo di arma, l'uomo costruisce quell'arma; se sa che può disporre di essa, l'uomo la usa. Se possiede la freccia egli lancerà quella freccia. Se possiede la bomba, prima o poi scaglierà quella bomba, tradendo, sopra ogni cosa, anche i legami di sangue.

Il re Lear di "Ran", Hidetora, ha 70 anni. Durante la realizzazione del film Kurosawa ne ha appena qualcuno di più. Ma nel primo non c'è saggezza. Hidetora non scopre le proprie efferatezze passate in maniera spontanea, attraverso un lucido ripensamento. Egli le scopre per via di un nuovo errore, quello di affidare i suoi possedimenti ai propri figli. Non è l'esperienza dell'età a spalancargli gli occhi, ma la follia. Non sono le proprie azioni volontarie, ma i fatti che gli succedono attorno, quasi per punizione divina, eredi delle sue stesse atrocità.
Dall'altra parte Kurosawa si pone invece come il saggio; ma un saggio muto come sono gli dei - si limita (non è poco) a osservare e rappresentare. Il suo sguardo sembra salito in quegli stacchi, frequenti soprattutto nella prima parte del film, alle nuvole, ai loro spostamenti maestosi e lontani, alla interrogazione delle loro forme superne che sembrano commentare la miseria degli scontri terreni. Un distacco, quello del regista, che è anche nell'uso continuo dei campi lunghi: dove non sono le espressioni dei singoli personaggi (maschere) a rivelare il variare dei sentimenti umani, sono gli accadimenti, gli scenari, i colori.

"Ran" è sicuramente un film epico, ma non come lo era per esempio "I sette samurai". I guerrieri non impugnano la spada per onore e giustizia, o per la sola ricompensa di qualche manciata di riso. Ai castelli, mai fotografati nella loro totalità e grandezza, sono riferite inquadrature perlopiù bieche, atte a citarne non la ricchezza ma gli intrighi che vi si svolgono all'interno. Sono dedali di pietra, mura di cinta, enormi porte che si chiudono. Tradimenti, adulazioni, sotterfugi, avidità, assassinii, menzogne, disonore, in "Ran" non è illustrato un solo momento lieto. Né la donna è esentata da questo vortice di torti subiti e inflitti. Non lo è certo Kaede, moglie di Taro, che ricorrerà ad ogni mezzo per placare la sua sete di vendetta e mandare in rovina l'intera casata, sino ad irretire Jiro dopo la morte del marito e soggiogarlo al suo volere. Ma nemmeno Suè, moglie di Jiro, che assopirà il proprio dolore nell'adorazione a Buddha. A entrambe il Gran principe in passato aveva massacrato la famiglia, invaso il palazzo; entrambe sono vittime, hanno soltanto reagito diversamente. Ma in loro non c'è un sentimento positivo, c'è solo odio o rassegnazione.
E l'eroe, Saburo, il figlio giusto, allontanato dal padre, scompare per buona parte del racconto. Resta al di fuori da orrori e sciagure. Solo nel finale interverrà, troppo tardi, non come salvatore.

"Ran" è una tragedia corale e la tragedia di un singolo individuo, Hidetora, responsabile di tutto, degli orrori passati e di quelli correnti. Ogni personaggio coinvolto, ogni battaglia che si svolge, ogni atto malvagio, è riconducibile a lui, diviene proiezione angosciosa della sua follia, diviene un rimorso inestinguibile.
Cacciato dal primo castello da Taro, respinto dal secondo da Jiro, egli vaga con i pochi uomini del suo seguito, affamato, nell'arsura, in quelle che furono le sue terre, anche il paesaggio si fa pietroso. Tutto ciò che gli rimane di arte e bellezza: il buffone che lo accompagna fedele, dal principio sino alla fine, quasi una coscienza che inscena e deride ogni sua situazione.
"Il cielo è molto lontano, ma l'inferno non lo è" dice al suo padrone: e l'inferno si realizza - Ran, il caos.

Nella sequenza impressionante dell'assalto al castello, il suolo diviene cinereo, arso, fumante e tutto, anche le armature dei soldati, si scurisce; rimane una patina buia caricata del rosso. Gli stendardi degli eserciti di Taro e Jiro venuti a uccidere il padre, si agitano e si mischiano, gialli e rossi, senza misura, come le fiamme. Corpi confitti da decine di frecce cadono, pendono come sculture di cenere e sangue. Il sonoro è sostituito da una musica languida; poi, al colpo che uccide Taro alla schiena, s'interrompe, esplode il frastuono della battaglia.
E in quell'inferno Hidetora scampa, incredibilmente, agli spari, al fuoco, alla pioggia di frecce, non per miracolo, ma per volere di un fato vendicativo, perché egli possa esplorare per intero la profondità delle mostruosità che ha arrecato durante la propria esistenza. Non esce vivo il padre, tradito dai figli, non il principe. Ciò che esce con passo funebre dal castello è quasi un fantasma, senza più ragione, con una sola espressione di terrore incisa in viso, fatto pallido, al pari delle sue vesti e della sua barba, che trascina dietro sé la sua spada come un gravoso traino, mentre gli eserciti si aprono al suo passare, lasciando che proceda verso l'abisso.

Nei recessi più remoti del feudo, dove l'erba si agita dentro un vento senza fine, in un clima d'apocalisse egli, vecchio e pazzo, dannato, immiserito, avanza dove rivivono anime e luoghi del passato.
Là non ci sono castelli, c'è una capanna. Dentro Tsurumaru, altro fantasma pallido, fratello di Suè, al quale il Gran principe stesso fece un tempo cavare gli occhi, lo accoglie, suona all'ospite un flauto dal suono insostenibile - insostenibile per Hidetora - che nell'udirlo indietreggia terrorizzato dal senso di colpa. Non ci sono più castelli, ci sono spettrali rovine, le rovine di un castello che un tempo egli aveva distrutto. Fugge; tutt'intorno solo lande deserte.

A redimere la terra dal caos serve un nuovo scontro - e un'altra sequenza di battaglia grandiosa.
Ora a campo aperto, ora in uno scenario immenso e luminoso, un ordine è tornato negli schieramenti delle armate, nei colori di nuovo ben distinti; dal suo esilio prolungato, anche l'azzurro degli stendardi di Saburo fa la sua ricomparsa. Ma non per giustizia altri eserciti si sono adunati accanto a Saburo e contro Jiro, ma per opportunismo. Giustizia sarà fatta soltanto nei confronti del tiranno Hidetora, non nelle terre di quel feudo. Sangue non lava altro sangue. Nuove ferite non curano vecchie cicatrici. Come centinaia di frecce non centrarono durante l'assedio il vecchio padre, per stesso volere del fato, spietato, giusto ed ingiusto, un solo proiettile vagante colpisce l'eroe Saburo, che cade.
Muore Kaede, muore Suè, Jiro è sconfitto, il caos si estingue dentro le mura del primo castello, la tragedia è compiuta, la vendetta è compiuta, e dopo che Saburo è spirato, dietro di lui il vecchio padre si può spegnere ma senza pace.

Dopo il caos

Chi resta? L'artista, il buffone che impreca contro la crudeltà degli dei, dei quali noi non saremmo che il diletto; e Tango il guerriero fedele, che forse più che Saburo, tiene in lui custodito l'ultimo eroismo dei sette samurai. Egli ha solo servito. Non ha sguainato la spada per trarne proprio beneficio. Ha capito gli errori del suo Signore eppure non lo ha mai abbandonato. Ma non aveva il potere di decidere o cambiare le cose. Egli era soltanto un personaggio secondario.
Adesso non può che rispondere alle bestemmie del buffone, riportando i suoi rimproveri severi agli uomini, a questi stupidi  che "credono che la loro sopravvivenza dipenda dall'assassinio degli altri ripetuto all'infinito" e che "si battono per il dolore".

Gli dei piangono di noi, o forse l'universo non sa nulla della nostra sofferenza. A cosa serve deprecare il cielo dell'ignoranza di questo mistero se mai ne sarà a conoscenza? All'uomo, che sicuramente conosce il dolore e ciononostante ne reca a sé continuamente di nuovo, è dedicato questo magnifico e drammatico film: in esso sono trascritti il disordine e la forma, la guerra e il teatro, il buio e la tinta.

In esso è il significato di Ran, caos, e di ciò che rimane al suo passaggio perenne: l'umanità, un ragazzo solo, cieco tra le rovine, che barcolla sull'orlo di pietra.
Tre volte battuta, lapidaria, l'inquadratura si avvicina alla sua figura, scalpello dentro la piaga.
La sorella che sta aspettando non tornerà più, andata indietro a recuperare il flauto del fratello, decapitata: il suono di quello strumento, aveva il tragico afflato della tristezza, con esso egli si consolava. Cade anche l'immagine di Buddha - un raggio giù nel baratro illumina il suo sorriso, sereno e terribile.
Altri tre stacchi e l'inquadratura si allontana: nel tramonto definitivo, abbandonando il giovane, torna indietro tra le nuvole, distante tra le nuvole elevate, ma intrisa di profondo dolore.

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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 14/01/2011 10.33.00

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