Recensione silvio forever regia di Roberto Faenza, Filippo Macelloni Italia 2011
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Recensione silvio forever (2011)

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locandina del film SILVIO FOREVER

Immagine tratta dal film SILVIO FOREVER

Immagine tratta dal film SILVIO FOREVER

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Immagine tratta dal film SILVIO FOREVER

Immagine tratta dal film SILVIO FOREVER
 

"Silvio forever" è un film horror per stomaci forti.
Ma non per la fattura dell'opera di Faenza e Macelloni e di Rizzo e Stella, che risulta estremamente efficace - grazie ad un lungo lavoro di ricerca e di raccolta, che sarà loro costato mesi e mesi di dura fatica - ma per l'incessante senso di tristezza che procura l'incedere delle immagini e delle parole che si susseguono sullo schermo e davanti ai nostri occhi. Immagini tragiche e grottesche, esilaranti e stranianti, che in parte spiegano l'attaccamento di una larga fetta di italiani, suoi elettori, e il senso di ripulsa della restante parte.
Immagini forti e agghiaccianti in un documentario antropologico su un uomo che, come il pifferaio magico di Hamelin, per circa vent'anni ha incantato, sedotto, incatenato, corrotto, sopraffatto, illuso, l'Italia e gli italiani.
Ed è questa la domanda che, alla fine, sempre più spesso, ci facciamo: come è potuto succedere tutto ciò? Cosa è successo agli italiani per essere rimasti ammaliati (forse definitivamente) al punto di fidarsi così ciecamente e così a lungo di uomo così?

Costruito con grande abbondanza di reperti scovati nei ripostigli della memoria il film, come recita l'incipit, è una biografia non autorizzata sull'uomo che nel bene e nel male (molto più male che bene) ha segnato la vita politica del nostro paese, negli ultimi venti anni: dalla "discesa in campo al bunga bunga", passando per scandali (economici e sessuali) processi (evitati), gaffe internazionali, barzellette da caserma, performance canterine e ridicolo (in)volontario.
Niente di particolarmente originale, solo un lungo, insistito spot di cose viste, riviste e risapute, che messe insieme fanno non la storia di un uomo, ma la storia di un paese.
Un lungo apologo personale, un delirio di onnipotenza, che strappa qualche sorriso a denti stretti (se non fosse tutto così drammaticamente vero) e tanta, tanta tristezza. Una lunga allegoria che non sposta di una virgola l'idea che detrattori e veneratori si sono fatta di "lui".

Il film racconta un po' tutto "dell'uomo che volle farsi Premier per salvare le sue aziende dai debiti e per non finire in galera", come lui stesso ha pubblicamente dichiarato nel 1993 sia a Biagi che a Montanelli: "Se non vado in politica, mi mandano in galera e mi fanno fallire".
O forse perchè chi lo aveva aiutato in precedenza riempiendolo di capitali sporchi e riciclati, adesso voleva il saldo del debito.

Infanzia e prodezze: da bambino vendeva palle di carta come combustibile, a sei anni vendeva i compiti ai compagni di classe, a 11 affiggeva manifesti per la D.C. e cominciava ad essere "perseguitato" dai comunisti.
Si prosegue con i primi "oscuri" passi nell'imprenditoria edilizia, a fronte di una improvvisa disponibilità di denaro, di cui non ha mai voluto spiegare la provenienza. Poi è arrivata la televisione e il lancio della prima emittente privata, che salva dall'ordinanza di oscuramento, grazie ai favori di Craxi, il suo politico di riferimento in quel momento.
E con la televisione comincia ad allevare la sua mandria. A crescerla, nutrirla e plasmarla a sua immagine e somiglianza.
Quando l'appoggio politico di Craxi viene a mancare, avviene la famosa "discesa in campo", per "salvare l'Italia dal pericolo comunista". E il suo gregge televisivo, ormai addomesticato e bollito a suon di Drive Inn e soap opere, lo segue, acritico ed entusiasta, nella sua nuova avventura.

Naturalmente c'è dell'altro, non tutto, ma c'è dell'altro.
C'è mamma Rosa che incautamente profetizza: "Non vedrete mai una fotografia del mio Silvio in giro con le donne", (evidentemente la signora conosceva già il "vizietto" del suo rampollo). C'è la sua megalomania, il suo machismo, gli eccessi e l'arroganza, il marketing e la debolezza altrui; c'è Don Verzè e Dell'Utri; i "miracoli" di Napoli e dell'Aquila, mentre sullo sfondo compaiono ammassi di spazzatura e cumuli di macerie. C'è la lucida e lungimirante analisi di Montanelli: "un piazzista, il più grande del mondo", e l'offerta di un loculo post mortem nel mausoleo di famiglia, accanto a Previti e Dell'Utri, rifiutato con un grazie, "non sum dignus".

C'è la guerra intestina contro i giudici che "lo perseguitano", l'ossessione per i cattivi comunisti che "mangiano i bambini", le storiche gaffe internazionali con Obama e la Merkel, e le performance canterine. C'è l'irrisolto conflitto d'interessi che "non è un problema", e la mafia che "non esiste", i bilanci in vertiginosa crescita e il baciamano a Gheddafi, l'ossessione di ripetere sempre di essersi fatto da sè, e poi la sfrenata passione per le donne, da Noemi a Patrizia, da Ruby Rubacuori, "che credeva nipote di Mubarak", alla Minetti diventata consigliera regionale, in un crescendo parossistico che diventa farsa, al punto da costringere la sua seconda moglie a denunciare il "ciarpame politico" di cui si circonda e a chiedere la separazione.

C'è la sua vita, ineguagliabile, invidiabile, invincibile, sempre e comunque adorato dal suo gregge teledipendente, col suo perenne, smagliante sorriso, che spegne il nostro, inermi spettatori della sua immensa, invereconda esibizione di sé e della sua rozzezza rivendicata come qualità; c'è la sua ironia fuori luogo ("chi è che mi tocca il culo") e la sua infinita presunzione ("sono in odore di santità", se non "sono immortale").
Novello epigono della dottrina del culto della personalità, si circonda di gruppi di fanatici, che, sfidando il ridicolo, urlano l'inno di Forza Italia e cantano la canzone di Andrea Vantini, "Meno male che Silvio c'è", che neppure Stalin e Ceaucescu se lo sono mai sognato.
Ma in questo tantra berlusconiano mancano ancora tanti elementi perché l'opera risulti esaustiva. Manca Mangano, lo stalliere di Arcore e la loggia massonica P2, manca l'amicizia pericolosa con Putin e Lukashenko, mancano gli scandali sessuali e l'identità dei suoi primi finanziatori.

Non c'è abbastanza mafia e neppure abbastanza bunga-bunga, non ci sono abbastanza intrallazzi e neppure abbastanza accanimento legislativo contro la legalità.
Da qui nasce una sensazione di incompiutezza e di dèja-vu.
Niente di particolarmente nuovo e originale, nulla che non sia saputo e risaputo, che non si sia già visto e rivisto, fino allo sfinimento, dato che ormai è diventato, direttamente o indirettamente, l'unico e incontrastato protagonista di (quasi) tutti i tg e di quasi (tutti) i talk show politici, e praticamente ce lo ritroviamo perennemente in casa.

Il film non commenta e non rielabora, non prende posizione e non spiega.
Ma a furia di non spiegare finisce per cadere, forse involontariamente, nell'agiografia o col celebrare la inebriante macchina raccogli consenso, esaltando ulteriormente gli animi di quanti vedono in lui la panacea di tutti mali che affliggono il nostro paese.
Una pellicola che non giudica e non assolve, non critica e non elogia, semplicemente mette insieme frammenti di una realtà di cui tutti i giorni ossessivamente discutiamo e li trasforma in un quadro d'insieme, e che vista tra 50 anni risulterà assolutamente incredibile. Oggi è un'ottima spinta all'espatrio.

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 28/04/2011 14.45.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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