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"The Canyons" è un thriller noir ambientato a Los Angeles che parla dei pericoli sia personali che professionali che derivano dall'ossessione per il sesso e per l'ambizione. La storia ruota attorno alla turbolenta relazione tra Tara (Lindsay Lohan), una giovane aspirante attrice, e Christian (James Deen), un giovane ricco produttore di film. La vicenda si complica quando nella vita di Tara si riaffaccia il suo ex, Ryan (Nolan Funk), in un'escalation di sangue, violenza, paranoia e crudeli giochi mentali.
Questa è la sinossi data dal Catalogo Adler Entertainment, la società di distribuzione del film in Italia, società che presenta "The Canyons" come uno dei suoi cavalli di battaglia, quando probabilmente dovrebbe configurarsi piuttosto il ronzino, il cavallino da traino, l'ultima ruota del carro del suo listino.
Chi scrive non conosce Ellis come scrittore, ma purtroppo è capitato che il primo incontro sia avvenuto all'insegna della scrittura cinematografica, e il colpo di fulmine non c'è stato. Piuttosto c'è stato il trauma. Voglio dunque risparmiare la delusione a chi dunque sia intenzionato ad andare al cinema, poiché attratto da questa "insigne" firma della letteratura americana contemporanea. Ellis non ha il dono di scrivere sceneggiature e speriamo che "The Canyons" sia la prima e ultima volta che lo faccia.
Vedere "The Canyons" è stata una sofferenza pura. Perché, per quanto un film brutto possa essere un'esperienza quantomeno formativa, lo è in negativo. Mai la prassi di scrivere recensioni risulterà salvifica come in questo caso: state alla larga da questo prodotto becero dell'industria cinematografica americana, non fatevi ingannare dalla presenza di Ellis e Gus Van Sant, dalla trama accattivante, dal talento maledetto dell'attrice protagonista!
Da qui comincia la sezione spoiler, che poi più di tanto spoiler non è, dal momento che la trama è prevedibile e insulsa. Pertanto, chiedo a chi abbia intenzione di andare lo stesso al cinema e buttare via i suoi soldi, di astenersi dal continuare la lettura.
"The Canyons" è un film postmoderno, moralistico e di impianto narrativo standard.
Con "postmoderno" mi riferisco all'etichetta con cui i critici cinematografici contemporanei descrivono una serie non sistematica di tendenze filmiche che si sono intraviste o consacrate negli ultimi decenni di cinematografia. Il film di Schrader, regista essenzialmente celebre per aver scritto la sceneggiatura di "Taxi Driver" una quarantina di anni fa, quindi non celebre per essere un regista, aderisce a canoni di regia che sono sia postmoderni che classici, puntando a un insipido ibridismo tecnico. Il problema principale della tecnica cinematografica è che spesso i registi non sono autori (un problema fisiologico dacché il cinema è nato) e dietro le loro scelte su filmico e profilmico si nasconde una totale assenza di quello che André Bazin chiamava "il fondo", espressione perfetta per descrivere quel lavorìo psicologico che sta dietro alle scelte tecniche e quindi estetiche di un artista di cinema. È la consapevolezza che un uso della mdp è sempre orientato da criteri che sono prima psicologici e poi diventano il canone per rappresentare un certo concetto, uno stile, un'espressione in cui lo spettatore possa ritrovarsi con un meccanismo antico di riconoscimento. I falsi raccordi della celebre scena della doccia in "Psycho" irrompevano sulla tradizione del montaggio classico americano per segnare un distacco necessario alla sperimentazione di qualcosa di più audace; quella di Hitchcock era una rappresentazione che doveva impressionare gli spettatori in maniera nuova, distruttiva nei confronti di un modo d'esprimersi che ormai aveva esaurito le sue potenzialità visive. Paul Schrader utilizza i falsi raccordi nella prima scena, ma lo fa in maniera scriteriata, senza alcuna giustificazione in sede teorica e pratica. Cosa serve quel debordare di inquadrature che interrompono la continuità occhio-occhio della mdp? Perché spezzare gli assi prospettici dello schermo in una overdose di movimenti, di stacchi per esporre una normale e introduttiva scena di dialogo tra i tre protagonisti? Certo, il tema principale del film è introdotto proprio in questo dialogo, ma il legame tra queste scelte anticlassiche e l'importanza narrativa della scena rimane comunque oscuro. Senza contare che il cinema postmoderno è pervenuto recentemente a soluzioni ben più interessanti, penso specialmente alla bellissima scena di dialogo tra Michael Fassbender e il prete in "Hunger" di Steve McQueen (regista ben più dotato di Schrader, e nominativamente molto meno "esperto"), in cui la scena è ripresa per venti minuti con mdp fissa, riuscendo tramite la bravura degli interpreti, l'alto livello della sceneggiatura, la fotografia, ma soprattutto l'anti-convenzionalità dell'espediente filmico usato (staticità si oppone a movimentazione), a rendere il dialogo uno dei picchi di eccellenza raggiunti dal cinema di oggi.
Per non essere prolisso, citerò solo un altro esempio di questo stile incongruente e incoerente: la shaky camera va usata con cautela. Angel Quintana lo definisce lo stilema che contraddistingue il cinema d'autore anni Novanta e Duemila, ma finché si tratta di Von Trier, Allen e i Dardenne possiamo anche fidarci. Ma non è chiaro in che senso si possa definire Schrader un autore. La ripresa in movimento, quando non usata a fini acclaratamente pratici (cinema bellico, documentaristico, ecc), è tendenzialmente associata a effetti di resa dell'interiorità inquieta dei personaggi. E in questo film di inquietudine ce n'è parecchia. Ma al contempo la vicenda è narrativamente statica, la storia fatica a decollare per poi risolversi in un nulla di fatto, quindi a questa noia si aggiunge il fastidio di riprese traballanti che collidono con il significato del film e il suo metraggio. Uno spettatore colto esige una giustificazione per ogni scelta tecnica di un regista e qui purtroppo sembra disvelarsi uno dei problemi maggiori che attanagliano il cinema postmoderno, ovvero la tendenza furbesca a confidare sull'ignoranza generalizzata delle sale, un'ignoranza sia di linguaggio che di storia del cinema, che poi di fatto sono la stessa cosa.
Ma allora suonerà tragicomico il monito esplicito che il regista lancia in sede di prologo. Quello della decadenza del cinema. Abbiamo sentito quello della Grecia, di Roma antica, quello dei costumi, quello della fede nelle metanarrazioni, quello del Welfare, non poteva mancare quello del cinema. Che il concetto di cinema come "visione in sala" sia in crisi nessuno lo mette in dubbio: a parte il fatto che Wim Wenders ci aveva girato su un capolavoro nel '76 (e Wim Wenders è tra l'altro un autore che alla stessa età di Schrader invece che perdere tempo e risorse a lanciare moniti moralistici contro i cattivi costumi, ha girato un film complesso e interessante come "Pina", uno dei pochi risultati convincenti odierni di questo format artistico); ciò che non convince è che poi lo stile di questo film si presenta molto più addentro a queste logiche di decadenza di quanto voglia fare, tirandosene indietro con un album fotografico di sale cinematografiche dimenticate da dio e dagli uomini. Schrader fa la figura dell'ignorante, del millantatore, del borghesotto che non va oltre il suo naso e dà la colpa di questa decadenza ai complotti delle produzioni contemporanee e, immancabilmente, della perdita di affezione verso la settima arte da parte degli spettatori.
Di questa tematica, l'amore per il cinema, quello vero distinto da quello per l'ambizione, i soldi, il potere e il successo, il film è purtroppo intriso. Ellis, di recente distintosi essenzialmente per una sterile e ipocrita polemica lanciata su Twitter nei confronti di David Foster Wallace, scrittore che poi non si era potuto difendere in quanto defunto da qualche anno, sembra interessato a infarcire il suo thriller con frasi ad effetto e innovative come "siamo tutti attori", oppure dipinge i suoi odiosi personaggi con logiche di purezza/maledizione mescolate, specialmente in quello di Tara in cui si alternano momenti di onestà a momenti di totale vacuità esistenziale, ma in cui ahimé ciò che rimane invariato è una totale incapacità istrionica a rendere credibile e sfumato il proprio personaggio da parte del noto fenomeno da baraccone conosciuto col nome di "Lindsay Lohan". Sfortunatamente per Ellis, Foster Wallace riusciva negli anni '80 fino all'anno della sua scomparsa a trattare più o meno le stesse tematiche e a risultare convincente, interessante e degno di essere considerato uno "scrittore".
Purtroppo non è neanche il caso di dire che gli attori sono il problema principale, perché comunque il film fa acqua da tutte le parti. Come già accennato, Ellis dà corpo a un'opera lenta e indigesta, verbosa e prolissa, anonima e poco interessante. Un esempio lampante sta nella scena finale: l'idea, se poteva anche essere intuitivamente buona, cade miserabilmente nel trash, per via di una serie di dialoghi insopportabili e soprattutto per una lentezza esasperata che demolisce l'attenzione dello spettatore già sfinito per i 90 minuti precedenti. Recitato da cani e scritto ancora peggio, ciò che era interessante, ovvero l'effetto sorpresa per cui ci saremmo aspettati Christian invece che Ryan (il quale guarda addirittura in camera, ennesimo stilema del cinema anti-classico, come sempre senza alcuna logica), viene massacrato dall'infinita trafila preparatoria precedente. La sceneggiatura è un'arte complessa proprio perché essenzialmente gli spettatori non devono mai annoiarsi. La quantità di dettagli inutili di cui è infarcito questo film mi ha portato a chiedermi quanto ci fosse di saliente, da un punto di vista narrativo, nella pur esigua durata effettiva della pellicola.
Un esempio sta nella scena del ritrovamento del cellulare da parte di Tara. Già questa indicazione dovrebbe chiarire tutto. In questo film le scene salienti e importanti consistono in Lindsay Lohan che ritrova il cellulare nel cassetto del suo fidanzato. Schrader è incapace a creare tensione e l'espediente patetico dell'uomo-che-si-sveglia-all'-improvviso-e-ti-afferra-il-braccio-con-musica-tensiva-sotto è fastidioso come pochi. Questa scena ci permette anche di esplorare un'altra tematica clou del film: l'invasività della tecnologia nella vita delle new generations. Il film ruota attorno all'orrore che dovrebbe suscitare la pratica erotica patologica di filmare il proprio partner durante atti sessuali cui prendono parte sconosciuti; attorno al fatto di "avere sempre in mano il telefono", dello spirito di falsa confidenza che le tecnologie si portano irrimediabilmente dietro, del perenne vuoto comunicativo di questi individui narcisisti e emotivamente instabili, insomma queste e altre cose nuove. Il problema è che questo è esattamente ciò che ci aspettiamo da film del genere. Quindi l'effetto è quello di una annoiata e stanca riproduzione in forma visiva di cliché sociologici che abbondano nei giornali e nei blog di mezzo mondo (solo per citare la pubblicistica più avvicinabile).
Ma è nella costruzione dei personaggi che Ellis fallisce nella maniera più imbarazzante: Christian è un personaggio patetico, ma paradossalmente gli altri sono delle nullità così meschine che alla fine non possiamo che tifare per lui. Premesso che il carisma di James Deen, attore porno prestato al cinema (???), è se possibile ancora minore di quello degli attori porno nei film porno, lo stesso personaggio è trattato con l'ingenuità di uno scrittore che sembra ancora alle prese con il primo corso di scrittura creativa, non l'autore de "Le regole dell'attrazione". Un esempio su tutti: il rapporto con gli antagonisti. Non capiamo nulla di come vuole gestirsi (li fa pedinare, gioca al gatto e al topo con Ryan obbligando il suo co-produttore a chiedergli una prestazione di sesso orale) ma poi si decide e la decisione risulta esageratamente incongrua: Christian compie l'efferato omicidio di Cynthia, ma poi si limita a punire Christian con una telefonata adolescenziale e prosciugandogli il conto in banca (che tra l'altro non può che essere basso, dato che Ryan è un arrampicatore sociale che lavora in un hotel e ogni tanto posa per servizi fotografici). Un critico molto lusinghiero potrebbe suggerire il tema implicito della misoginia, ma comunque è innegabile un certo quoziente di stupidità in tutta la soluzione narrativa. Ryan stesso è un imbecille senza arte né parte: è impossibile provare per lui la simpatia che giocoforza dovremmo accordargli, essendo l'antagonista del protagonista malvagio. Vonnegut diceva che i personaggi devono volere qualcosa a tutti i costi, anche se un bicchiere d'acqua. Il problema è che Ryan tutto quello che vuole lo ottiene subito, ma poi si comporta in maniera opposta alle sue intenzioni: ottiene subito la parte di attore nel film prodotto da Christian, la scena d'amore tra lui e Tara (in cui Lindsay Lohan addirittura piange) avviene troppo presto, ma poi non sbocca in nulla di fatto, se non innescando la paranoia di Christian (e immensi giri di telefonate, cocktail al bar, tranelli tecnologici, ecc.) e soprattutto senza interrompere irrealisticamente la convivenza tra lui e la sua fidanzata Gina (Amanda Brooks), una relazione da soap opera degna di "Beautiful". Inoltre Vonnegut raccomandava di essere cinici con le proprie creature, di fargli capitare di tutto, e questo spiega il successo di maestri della penna come Vince Gilligan e Stephen King. No, Ryan il massimo che subisce è un leggero corteggiamento da parte del datore di lavoro, una prestazione di sesso orale da parte del suo produttore (una macchinazione di Christian la cui logica non è ben chiara) e la perdita di qualche migliaio di dollari. Se lo paragoniamo alla situazione narrativa con cui si avvia la vicenda di "Breaking Bad" un dubbio sorge spontaneo: ma Ellis è ancora il talento eccezionale dei tempi di "American Psycho"?
Dato che ci siamo, un'altra spina nel fianco dell'opera è l'insistita tematica omosessuale che ne caratterizza implicitamente e esplicitamente l'ideazione. Il narcisismo psicosessuale di Christian (e la sottomissione della sua fidanzata) dà l'abbrivio a Ellis per parlare della depravazione omosex degli ambienti hollywoodiani. Niente di più trito e pruriginoso. L'esasperazione esplode durante l'orgia di fine film, tra Tara, Christian e un'altra coppia. Qui il film ci costringe a un'ennesima ventata di originalità proponendoci il solito schema: ragazza che costringe ragazzo al sesso gay e complessi edipici che ne derivano. Questo ingenera il meccanismo seguente: la scena dello psicologo. Sappiamo che gli americani sono affezionati a questo meccanismo narrativo ("Caro vecchio neon" di Wallace, "Lamento di Portnoy" di Rot), sicuramente eccezionale per far emergere l'interiorità del personaggio, tuttavia qui l'idea della psicoterapia è solamente accennata e si risolve ai tre vecchi cliché: il rapporto controverso con un padre assente e ricco, il sesso come spia dell'apatia sentimentale dell'uomo contemporaneo, e la frasetta tremenda "mi sono sentito come un oggetto", alludendo al fatto di essere stato costretto dalla sua ragazza a un rapporto orale con un altro uomo. La scena dovrebbe essere degna di nota perché il Dottor Campbell non è altri che il noto regista omosessuale Gus Van Sant, che ricorda davvero troppo Peter Bogdanovich quando interpretava l'analista di Lorraine Bracco nel capolavoro televisivo "I Soprano". Ellis sembra avere un talento per percorrere strade ormai in disuso, arare suoli improduttivi e impoveriti, riesumando dall'inventario dello scrittore depresso tematiche come "dietro la virilità c'è Edipo", "Macho è gay", eccetera.
Ultimo, ma non in ordine di importanza, problema del film è la scelta degli attori: tralasciando i deuteragonisti, il grosso problema è come sempre dato dai protagonisti. Lindsay Lohan dovrebbe essere inserita nei dizionari come antonimo di "bravura", mentre James Deen è semplicemente quello che è: un porno-attore. Ma Deen si cala nella parte con l'intelligenza e la sicurezza che lo contraddistinguono sui set hard da quando aveva 18 anni: "Mi sento il ragazzo più fortunato del mondo" dice a chi lo intervista, un vero schiaffo agli attori di talento. Il "ragazzo", essendo totalmente incapace a recitare, ovviamente passa tutto il tempo del film nudo, a scopare. È l'unica cosa che sa fare nella vita, quindi è normale che non abbia deciso di passare - per fortuna - definitivamente al cinema: "Ho intenzione di fare sesso davanti alla macchina da presa ancora per molto tempo: la gente vuole vedermi nudo". Purtroppo, essendo un film soft-core, siamo costretti a vederlo, e oltre a lui anche il corpo sgraziato di Lindsay Lohan che non ha nemmeno quel talento. Quindi in definitiva, James Deen sembra essere quello più in parte dei due. Quando non è nudo, passa il tempo a usare il cellulare, a pronunciare frasi insulse, a fare la parte del bambino viziato e sicuro di sé, e a occhieggiare la mdp con sguardi focosi e audaci, suscitando l'imbarazzo degli spettatori e mettendo in ridicolo se stesso. Quando invece non si gira, in una mossa maschile classica e francamente terribile, a guatare il sedere delle donne che gli passano accanto, James Deen si appresta a interpretare la parte dell'omicida. Ed è qui che dimostra di non saper usare il suo tanto decantato corpo se non per alimentare l'industria del porno: quando si muove nella casa di Cynthia sembra un sedicenne ubriaco del sabato sera che tenta di infilarsi i guanti da cucina per pulire il macello fatto in bagno. Poi Cynthia completa il disastro scappando in camera invece che fuori dalla porta. Nolan Funk invece ha un passato come sportivo, e forse avrebbe fatto meglio a proseguire quella carriera.
In ultima sede, resta da chiarire il significato del titolo. La scelta di rendere un omaggio letterario ai canyon di Hollywood, a luoghi carichi di suggestività ma desolati e sconfinati come la personalità degli esseri umani che li abitano (Tara e Christian vivono in una splendida casa arroccata sulle pendici delle colline californiane, una chiara utilizzazione simbolica della scenografia e delle location) risultano come l'anello al naso del porco, un ornamento patetico e dal sapore leggermente umoristico.
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Recensione a cura di Terry Malloy - aggiornata al 19/11/2013 15.30.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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