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Angelina Davis, Brigid Berlin, Mary Woronov, Gerard Malanga, Marie Menken, Ingrid Superstar, Rene Ricard, Ronna Paige, Ed Hood, Patrick Flemming, Mario Montez, Ari Boulogne, International Velvet, Ondine, Nico, Eric Emerson; non sono solo gli interpreti di "The Chelsea Girls", ma sono ancor prima alcuni di quei nomi che frequentarono quell'eccentrico punto di ritrovo, quello straordinario laboratorio creativo che fu la Factory, in cui transitarono molte delle più interessanti personalità artistiche della New York (ma non solo) degli anni '60 - '70 , e che ebbe in un tale Andy Warhol, allora non ancora noto, il suo fondatore e il suo capo carismatico.
Se oggi viene soprattutto celebrato per le sue invenzioni pittoriche (perlopiù stampe serigrafiche), e riconosciuto come il maggiore esponente della pop-art, non bisogna dimenticare che Warhol fu un artista impegnato in diversi ambiti: fotografo, grafico pubblicitario, scrittore, produttore musicale (impossibile non citare i Velvet Underground); la sua ricerca, mediatica oltre che artistica, abbracciò nondimeno il mestiere di cineasta, in cui, avvalendosi della collaborazione con l'amico Paul Morrissey, la sua arte della superficialità e del consumo trovò nuove soluzioni, e una compiuta e incisiva altra forma d'espressione.
Prima di "The Chelsea Girls", Andy aveva già all'attivo diverse pellicole, oggi difficilmente catalogabili: opere sperimentali che facevano capo al cinema underground; ma nessuna di queste ebbe molta visibilità. Con "The Chelsea Girls", egli ottenne quel successo di pubblico che voleva e che gli permise quella notorietà che ogni artista va cercando.
Dodici episodi, di mezz'ora circa ciascuno, scorrono nel doppio schermo, ognuno dei quali racconta le azioni dei giovani che alloggiano nelle camere del mitico Chelsea Hotel.
Non c'è trama, non montaggio né direzione. I personaggi che vivono (e non fanno nient'altro) nella pellicola sono ripresi in maniera diretta, senza mediazione, in un unico estenuante piano-sequenza.
I movimenti nervosi della cinepresa stuzzicano le reazioni dei ragazzi, ora tagliandoli dall'inquadratura, ora privandoli dell'audio, ora zoomando sui loro volti o su particolari senza motivo; l'obiettivo li osserva stimolandoli a disinibirsi e a mostrarsi completamente.
Dietro la macchina da presa, l'enigmatico compagno Andy è un laconico spettatore, anzi muto, pretende da loro qualcosa che è forse proprio quella perplessità di non sapere cosa.
Il cinema di Warhol è un cinema violentemente essenziale, di pochissimi mezzi e d'ambientazioni minimali, intenso, teso, schietto sino al disgusto, intento ad esprimere il fenomeno commerciale - come tutta la sua arte - eppure deciso a non farne parte.
Possiamo dire che "The Chelsea Girls" (il titolo è in verità fuorviante, dacché i boys sono presenti almeno quanto le girls) anticipi in qualche modo i reality di una trentina di anni.
La sua realtà - che preavverte quella curiosità, anche voyeurista, dello spettatore moderno, interessato a chiedersi di ciò che accade in altre stanze, e di come si comportino differentemente i suoi abitanti - è la realtà cruda di Andy e degli amici della Factory: depravata, brutale, a volte duramente ironica e permeata di una tragicità ossessionata dalla parola fine (nella sua accezione di termine, ovviamente, non di scopo).
Sesso, droga, trascuratezza, omosessualità, psichedelia, sadomasochismo, autolesionismo; sono queste le componenti principali del reality della Factory.
Nico e gli altri sono ripresi nella loro quotidianità spiata, in una spontaneità consapevole di essere registrata. Ovvero, gli individui che vediamo non si comportano naturalmente come si comporterebbero durante la loro vita reale, ma compiono le loro azioni nel modo in cui sanno che esse in quel momento vengono filmate. E questa è sicuramente una delle più grandi verità che in una pellicola si possa sperare di trovare.
La cinepresa impone loro di sottoporsi ai suoi esperimenti, li scruta incessantemente sino a che il rullo non finisce. Diviene una seduta psichiatrica intensamente strana, ambiguamente paranoica: non offre loro un aiuto ed anzi li osteggia, e non è chiaro, tra chi riprende o chi è ripreso, quale sia il malato da curare.
Queste star disperate, sbandate, smarrite, s'aggirano come animali in cattività (è presente tra loro perfino un bambino), dove l'obbiettivo funge da sbarre e le stanze del Chelsea Hotel assomigliano a gabbie anguste. Sono belve sedate e al tempo stesso inquiete.
Ne vengono fuori bisbigli, strepitii isterici, gesti imbarazzati che si combinano a scatti d'esausto esibizionismo.
Una lacrimazione orgiastica non accessibile se non attraverso l'occhio della telecamera. Uno squarcio profondamente vivo di non-vite. Un articolo underground - e un aggressivo documento - sui temi della vita di Warhol. Ma è tutto maledettamente reale.
Mentre gli Stati Uniti stanno combattendo la guerra nel Vietnam, i ragazzi del Chelsea Hotel percepiscono il peso di dovere incorporare tutto il disagio e il disorientamento di una generazione sotterranea, forse sono anche consapevoli del fatto che da lì a poco molti di loro andranno in contro ad una fine tragica, conseguenza ovvia di una condotta sensualmente e cocciutamente autodistruttiva.
Ma lo spettatore non è chiamato ad immedesimarsi. Il cinema di Warhol, lontano anni luce dalle prospettive hollywoodiane, è un cinema che possiamo definire primitivo - quindi puro a suo modo, sicuramente d'avanguardia - atto a spogliarsi di tutta la finzione filmica che il cinema convenzionale proponeva. Il suo è innanzitutto un filmare è nient'altro, senza giudizio. L'unico sforzo che ci viene chiesto, è quello di assistere e sopportare pazientemente, e di resistere a tanta noia, a tanto sesso, a tanta droga, a tanta arte, a tanta verità.
L'utilizzo del doppio schermo - espediente suggerito probabilmente dalla passione per i fumetti e dall'interessamento al fenomeno dilagante della pubblicità - demarca il senso di contemporaneità delle vite e degli eventi, specchia le stanze d'albergo l'una nell'altra, le confronta, stabilisce sotterranee corrispondenze tra ciò che accade a destra e ciò che sta accadendo a sinistra.
L'evento senza sonoro funziona quasi da commento a quello parlato.
Allo spettatore è dato modo di scegliere continuamente quale guardare, se sentirsi attirato dallo schermo commentatore o da quello commentato. E una cosa è certa: in due situazioni proposte in concomitanza, ci sono più probabilità che qualcosa d'interessante accada.
È possibile che qualcosa d'interessante stia accadendo in ambedue le schermate, e allora bisogna necessariamente abbandonarne una.
Oppure può succedere il contrario, ovvero che nulla di rilevante avvenga negli ambienti visibili, e sovviene allora la sensazione che la cosa interessante stia accadendo in una terza stanza che in questo momento non ci viene mostrata. E tutto ciò a favore dell'ambiguità.
L'esperimento comunque sembra avere successo. Gli interpreti, che improvvisano dialoghi magnetici, madidi di desolazione, tediosi e al tempo stesso affascinanti, resistono benissimo. Anzi i primi sintomi di stanchezza sembra avvertirli il regista.
Al bianco e nero denso dei primi episodi - dove spesso, in uno dei due schermi, domina un fondale tenebroso - sopraggiunge imprevisto il colore.
Arcobaleni frammentati e appiattiti, luci stroboscopiche, cromatismi caleidoscopici teatrali e provocatori dove - quasi memori del motto del New American Cinema Group che a proposito dei film dichiarava: "non li vogliamo rosei: li vogliamo del colore del sangue" - un rosso abbacinante prevale.
Appaiono essi come il segnale di una resa.
È una nuova sperimentazione in corso (o simulazione d'overdose) prettamente artistica e forse capricciosa, ove i colori non si compenetrano nell'immagine, ma si limitano, tenendo fede al motivo dell'arte di Warhol, ad alterarne la superficie.
L'artista interviene - seppure esteriormente - sulla realtà ottenuta, ricreandola a livello visivo e dunque anche a quello percettivo.
Nico egli altri della Factory continuano a recitare (o non recitare) come se quelle luci e quei colori non trascorressero sopra i loro corpi. Ma i segni d'un esaurimento iniziano a intravedersi anche nei protagonisti.
Nell'ultimo episodio, in cui il bianco e nero fa ritorno - Ondine si rivolge minaccioso verso la telecamera, parla per tutti - noi compresi - e sembra averne abbastanza.
La sua confessione tocca l'apice della disperazione di cui è pervasa l'intera pellicola.
"Here's Room 506
It's enough to make you sick
Bridget's all wrapped up in foil
You wonder if she can uncoil.
Here they come now
See them run now
Here they come now
Chelsea Girls"
Da "Chelsea Girl", cantata da Nico e scritta da Lou Reed e Sterling Morrison dei Velvet Underground.
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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 09/12/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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