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Il professor Alan Turing, genio matematico esperto di crittografia, è arruolato dall'esercito britannico per far parte di una task force che deve trovare la chiave del funzionamento di Enigma, il codice crittografico impiegato dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Il codice cambia tutti i giorni e l'elevato numero di combinazioni rende praticamente impossibile decifrarlo prima che esso cambi e invalidi tutto il lavoro fatto. L'approccio di Turing è radicale: per battere una macchina occorre una macchina, che sia programmabile e in grado di scorrere le combinazioni a velocità impossibile per il cervello umano. Il progetto visionario di Turing incontra resistenze enormi, e la sua difficoltà a interagire con le altre persone e con i superiori complica ulteriormente la vita al geniale matematico, che nasconde un drammatico segreto.
Seguendo pedissequamente il format del biopic all'americana, la vita e le opere di Alan Turing vengono rielaborate, condensate e stravolte a fini drammatici al punto che della verità storica (per tacer di quella biografica) resta davvero poco. L'artificio del cinema in fondo è questo: trasmettere autenticità attraverso la costruzione di una finzione, ma in "The Imitation Game" si va oltre, arrivando a distorcere persino i fatti elencati (sempre come si conviene) in sovrimpressione a fine film, quando si afferma che il lavoro di Turing accorciò la durata del conflitto mondiale di circa due anni, con buona pace del contributo di tutte le altre centinaia di persone che lavoravano sulla crittografia in quel periodo.
Benedict Cumberbatch, ormai lanciatissimo sia nella fiction ("Sherlock") che nei migliori franchise ("Star Trek", "Lo Hobbit") è arrivato velocemente al punto della sua carriera in cui deve misurarsi con il ruolo arraffa-Oscar: omosessuale, autistico, genio incompreso, perseguitato e anche realmente esistito: Turing è il jackpot per ogni attore che ceda alle lusinghe di tali interpretazioni. Ci si perdoni il cinismo, ma da "Rain Man" a "A Beautiful Mind" (non senza passare per "The Big Bang Theory") di idioti sapienti e geni disadattati ne abbiamo visti sin troppi e "The Imitation Game" insiste eccessivamente su questo aspetto della personalità di Turing, mortificandone di fatto lo spessore accademico e la vastità delle ricerche.
Nel film, Turing, novello dottor Frankenstein, chiama la sua macchina Christopher, in memoria del primo amore, un compagno di scuola morto di tubercolosi e nella fase finale della sua vita il prototipo di calcolatore a cui Turing lavora in casa è ancora chiamato Christopher. Questo particolare, determinante nel film per connotare il blocco emotivo del protagonista, è del tutto privo di fondamento storico e collega in modo pretestuoso le tre parti della vita di Turing che il film sceglie di raccontare, accentuando (e inventando) il lato patetico di una vita certamente interessante ed unica, ma che forse non è esattamente materiale da romanzo.
Tralasciando la questione sull'aderenza alla realtà, "The Imitation Game" è un "one man show" in cui Cumberbatch conferma la sua abilità nel dar vita a personaggi distaccati dalla realtà, impenetrabili e geniali: il suo Turing è un incrocio tra Sheldon Cooper (i battibecchi con i colleghi ricordano i migliori momenti di "The Big Bang Theory") e (appunto) lo Sherlock Holmes contemporaneo di Mark Gatiss, che a sua volta davvero meriterebbe un trattamento cinematografico. La performance di Cumberbatch è impeccabile, ma non sorprende e non commuove: l'interazione tra Turing e gli altri personaggi non riesce a fuggire lo stereotipo del genere e anche le ottime prove di Matthew Goode (il maschio "alfa" del gruppo di ricerca, prima rivale poi amico) e Charles Dance (il generale Denniston, che osteggia Turing sin dal primo incontro) sono mortificate dalla necessità del film di collegare in qualche modo il genio alla diversità. In particolare, il ruolo di Denniston, anch'esso romanzato, serve a dare al film una sorta di villain - giacché di nazisti veri e propri non se ne vedono - e forse anche a rappresentare lo Stato, le leggi e le regole alle quali Turing non vuole o non può allinearsi e che segneranno in parte la sua fine. Discorso a parte per Keira Knightley, che ancora una volta si rivela l'anello debole in un ottimo cast (che annovera anche Mark Strong nei panni di un funzionario del MI6). Corrucciare la fronte e sorridere nervosamente sono tutto il bagaglio recitativo di un'attrice sopravvalutata che non riesce mai a scomparire nel ruolo, al contrario dei suoi colleghi.
La scena della "rivelazione" nel bar ricorda non poco un'analoga sequenza in "A Beautiful Mind" e la storia di come il gruppo di Turing scoprì il codice di Enigma è raccontata in maniera efficace e avvincente, anche se un po' confusionaria nelle spiegazioni. Ci sono altri momenti interessanti e con buon ritmo narrativo, ma probabilmente i momenti migliori del film sono quelli che raccontano il tormento adolescenziale di Turing. La vera sorpresa del film è infatti Alex Lawther, che interpreta il giovane Alan in collegio. Nelle poche sequenze a disposizione, e in particolare in quella con il preside, Lawther riesce a trasmettere tutto il dolore di un adolescente che chiude progressivamente le porte al mondo esterno, sopraffatto dal dolore e dall'incapacità di comunicare normalmente.
Le sequenze ambientate dopo la guerra sono invece fuori fuoco. Se al racconto dell'adolescenza si può perdonare la licenza poetica (anche in virtù della qualità cinematografica), la cronaca della condanna di Turing assume contorni grotteschi sia per le inesattezze storiche (qui davvero inaccettabili) che per l'intento evidentemente didascalico: viene introdotto forzatamente il famoso "gioco dell'imitazione " che dà il titolo al film, un po' per completare la descrizione "for dummies " delle intuizioni di Turing un po' per fornire una chiave di lettura conclusiva. Il gioco dell'imitazione si basa sulla capacità di scoprire se chi risponde a una serie di domande sia una persona o una macchina (i cinefili non stenteranno a ricordarlo, all'inizio di "Blade Runner"). Un test oggi forse obsoleto nelle premesse e nella metodologia, ma fondamentale nel campo della ricerca sull'intelligenza artificiale e sulle questioni etiche a esso associate.
La questione, per "The Imitation Game", non è capire se una macchina sia in grado di pensare, ma quello di apprezzare le differenze del pensiero di ciascuna persona, perché anche chi sembra diverso può nascondere enormi potenzialità. Una chiosa banale, quasi offensiva nei confronti dell'opera di uno tra i matematici più importanti del ventesimo secolo, indubbiamente troppo poco noto ai non addetti ai lavori rispetto a colleghi dal maggiore fascino come Einstein. Non siamo sicuri che il ritratto che ne fa "The Imitation Game" sia però il modo migliore per rendergli finalmente giustizia.
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Recensione a cura di JackR - aggiornata al 29/12/2014 17.37.00
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