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Cheyenne, cerone e capelli che fanno il verso in maniera un po' troppo marcata a Robert Smith dei Cure (il vero nome del personaggio sarebbe, tra l'altro, proprio Smith… almeno non Robert ma John), è un'ex popstar che vive in un vuoto pneumatico, in una sospensione al ralenti dell'esistenza che in qualche modo è analoga, per quanto meno radicale, a quella del Titta di Girolamo di "Le conseguenze dell'amore".
L'imprinting di base del personaggio di Cheyenne è quello tipico dei protagonisti dei film di Sorrentino. Eccentrico e pieno di idiosincrasie (si pensi a quante esilaranti opportunità aveva offerto in questo senso la figura di Andreotti!), la differenza rispetto ai precedenti, è che Cheyenne appare meno meschino (anche se Sorrentino in fondo ci aveva fatto provare un po' di simpatia persino per il suo Andreotti, così come per il repellente ma buffo Geremia de "L'amico di famiglia"). Ma qui, dopo un po', lo spettatore smette decisamente di provare fastidio per un personaggio tanto "deviato" come Cheyenne, e ad affezionarsi a lui, riconoscendo la tenerezza del suo non esser mai cresciuto. In questo aiuta l'amore materno della moglie, interpretata da una splendida Francis McDormand (la cui presenza come attrice non è l'unico rimando al cinema dei Coen). In breve, lo spettatore comincia presto a vedere la realtà (anche) dal punto di vista di Cheyenne, e a trovare un senso nelle sue stravaganze.
Tante parole si sono spese sulle divergenze e differenze fra il "film americano" di Sorrentino, e il suo cinema precedente. In realtà non c'è un punto di rottura significativo.
E d'altra parte l'argomento dei detrattori di questo "This must be the place" è spesso proprio il fatto che Sorrentino, con un espressionismo descrittivo raffinato, invece di innovarsi, si avvierebbe a un compiacimento formale di maniera (una maniera personale, s'intende), povero di idee e di contenuti.
Noi non siamo completamente d'accordo. Non è vero che "This must be the place" sia povero di contenuti. E' vero, sì, che appare un'opera più lieve e solare, rispetto alla precedente filmografia, ma con questo apporta un cambiamento nella poetica del suo autore. Nel disincanto puro, nel cinismo un po' beffardo, si apre il varco una timida umanità. "This must be the place" è (semplicemente) un racconto di formazione, in cui un adolescente fuori tempo massimo, un adulto senza eredi e senza prospettive ricomincia a immaginarsi un posto nel mondo.
La caricatura espressionista
Non abbiamo mai amato senza riserve il cinema di Sorrentino, che ci è sempre sembrato ridondante nell'adottare un espressionismo linguistico fortemente caricaturale. Per "caricatura" s'intende non solo l'amplificazione di determinati tratti espressivi (tic, gesti, pose, ecc.) dei personaggi, ma l'insieme dello stile di regia, che tende a caricare allo stremo la materia descritta, sino a caratterizzarla in maniera deformata, a partire dal ricorso a distorsioni spazio-temporali. Le figure retoriche a cui maggiormente fa ricorso Sorrentino sono il ralenti, il travelling e il dolly, usati sempre in modo creativo e personale (con frequenti passaggi, ad esempio, da un primissimo piano a un campo lungo nella stessa inquadratura).
Sorrentino è un'espressionista puro, alla maniera di Otto Dix. Ama ricreare il mondo attraverso gli strumenti che il cinema gli offre. Non osserva la realtà, ma crea quello che vuole guardare, caricando impudicamente le immagini in modo da esprimere con prepotenza una sua visione delle cose.
Questo stile porta con sé un paio di rischi. Anzitutto che, nei momenti meno ispirati, la forma non sostenga un contenuto forte: in altri termini, che vi sia più gusto per la maniera piuttosto che vera urgenza espressiva. Il secondo, è che sviluppare – sin dai primi film di una carriera – uno stile tanto incentrato sull'esteriorità della rappresentazione, possa indurre nella tentazione di cedere al vezzo narcisista.
Sorrentino ci è sempre molto piaciuto per il suo stile assai gustoso (padroneggiato in modo invidiabile), ma non abbiamo mai potuto fare a meno di sospettare almeno in parte della reale profondità della sua visione, e ipotizzare in questo senso uno sbilanciamento tra la sua originalità estetica e l'importanza della sua poetica.
Smarrirsi per ritrovarsi. Un romanzo picaresco
"This must be the place" poggia sul topos narrativo e cinematografico del viaggio, come momento privilegiato della riscoperta del mondo da parte di un personaggio, la cui parabola di formazione passa dallo smarrimento al ritrovamento,grazie al peculiare rinnovamento dello sguardo che il viaggio offre sempre. Alla base, "This must be the place" è il più classico dei road movie, che a sua volta appartiene all'archetipo narrativo primario, quello che nella civiltà occidentale ha il suo modello nell'Odissea. E rappresenta le basi della storia del romanzo, di cui costituisce la struttura essenziale. Il viaggio "di avventure" è la quintessenza del romanzesco; il romanzo, in origine, è sempre un viaggio di conoscenza sviluppato per tappe e per incontri, i quali segnano un percorso prima di smarrimento, poi di ritrovamento (rinnovamento, rigenerazione, crescita) del protagonista (che in molti casi subisce una trasformazione fisica prima di poter tornare uomo). E' il romanzo picaresco, che ha nel "Satyricon" di Petronio e nelle "Metamorfosi" di Apuleio i suoi modelli antichi e che quindi rinasce in età moderna con il "Don Chisciotte" di Cervantes.
Il Novecento non ha abbandonato il modello, adottandolo per la verità più spesso con accento posto sullo smarrimento anziché sul ritrovamento, visto l'influenza che il decadentismo ha esercitato e ancora esercita sul panorama culturale occidentale.
Sorrentino non è il primo autore europeo che, alle prese con un contesto produttivo e diegetico statunitense, pensa al road movie e a fotografare il paesaggio americano che, agli occhi di noi europei, ispira un'apertura istintiva dello sguardo e delle prospettive, con i suoi orizzonti sconfinati.
Si pensi a Wim Wenders. Ad esempio a "Paris, Texas" del 1984, uno dei suoi primi film "americani" (precedente una serie di altri film, più recenti e meno significativi, come "La terra dell'abbondanza" 2004 o "Non bussare alla mia porta" 2005). Anche lì, un viaggio negli U.S.A. veniva declinato in termini esistenziali, e il percorso individuale era fortemente connesso con la parentela: in quel caso, una moglie e un figlio che non si vedevano da anni.
Non staremo qui a rintracciare troppi altri esempi di film del genere, talmente tante sono le opere cinematografiche ricalcate su questo modello. Ma è giusto menzionare il film che Sorrentino ha dichiarato essergli venuto in mente mentre effettuava le riprese, "Una storia vera" di David Lynch (1999), con il quale ad ogni modo l'affinità non è maggiore che con altri film.
Anzi più che all'universo di Lynch, l'ultima pellicola di Sorrentino – in termini di toni generali di straniamento – deve qualcosa al cinema dei Coen (si pensi alla figura del rabbino), e soprattutto di Jim Jarmush (a noi è venuto in mente in particolare "Broken flowers", forse per un'affinità fra i protagonisti delle due pellicole, entrambi bambinoni immaturi, ma allo stesso tempo teneri e in possesso di una certa stravagante saggezza). E forse non andrebbe trascurato, per motivi abbastanza evidenti, lo Sean Penn regista: senza necessità di scomodare "Into the wild", il film del 2001,"La promessa", con Jack Nicholson, è un'altra pellicola alla quale "This must be the place" fa pensare. Pur senza eccedere nelle citazioni, "This must be the place" è sicuramente un film che rimanda a tanto cinema recente (forse troppo per non uscirne, almeno in parte, compromesso nell'originalità).
Probabilmente l'aspetto più interessante della struttura del film di Sorrentino è che la sua netta bipartizione è funzionale a sollecitare l'individuazione, da parte dello spettatore, di uno smarrimento collettivo a partire da uno smarrimento individuale. Infatti, ciò che Sorrentino, grazie al suo stile, riesce a connotare in modo "caricato", è come la nostra civiltà occidentale nella sua attuale terra d'elezione mitopoietica, ovvero l'America, appaia statizzata e smarrita, in una condizione di collettivo stand-by interiore.
Il contesto attorno al protagonista comincia ad apparire smarrito, privo di vigorosi appigli di senso, non appena è il protagonista ad iniziare muoversi, ricominciare a cercare e a cercarsi, e muovere gli occhi attorno. Le ragioni finali del viaggio ci appaiono quasi solamente un pretesto: più importante, invece, il sommovimento tellurico che la libera erranza determina in un'identità che sino ad allora appariva totalmente ripiegata su se stessa.
Una volta che il film si sposta in America, l'eccentricità delle sue figure rimanda allegoricamente a quella della civiltà intera, sospesa in un buffo tragicomico nonsense di solitudini annoiate che si sfiorano e si annusano, tenere e violente.
Lì è come se, poco a poco, lo straniamento del personaggio, nei confronti delle cose, si fosse trasmesso a tutto il paesaggio che lo circonda. Ma, proprio mentre ciò accade, ecco che il protagonista sta iniziando a ritrovarsi. E ritrovando una maggiore adesione affettiva per chi gli sta a cuore, trova il coraggio di liberarsi della sua maschera. La scena finale è la prova materiale che il mascherone dark costituiva un modo infantile di nascondersi alla vita, proprio come dietro ad uno schermo.
"Si passa senza accorgersene dal tempo in cui si dice 'un giorno farò' al giorno in cui si dice 'è andata così'": se questo è lo schema del passaggio dai sogni giovanili alle disillusioni di un'adulta mediocrità, il nuovo protagonista del cinema di Sorrentino rifiuta lo schema, e decide che se per lui finora è 'andata così', adesso è venuto il tempo di fare.
Come una nuova alba dove sinora era stata la notte.
Colonna sonora d'eccezione, e un David Byrne strepitoso a suggerire la differenza tra pop di plastica per adolescenti e pop d'autore e d'avanguardia.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 14/11/2011 15.09.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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