Recensione un'ottima annata - a good year regia di Ridley Scott USA 2006
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Recensione un'ottima annata - a good year (2006)

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locandina del film UN'OTTIMA ANNATA - A GOOD YEAR

Immagine tratta dal film UN'OTTIMA ANNATA - A GOOD YEAR

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Immagine tratta dal film UN'OTTIMA ANNATA - A GOOD YEAR
 

"Il vino ti bisbiglierà, con completa e definitiva onestà, ogni volta che ne berrai un sorso"

Uno strano concetto, quello del vino, metafora di un mondo come quello finanziario dove è doverosamente necessario guardarsi le spalle onde evitare possibili fregature: il "carpe diem" di Weiriana memoria potrebbe ambiguamente assumere un ruolo determinante anche nelle direzioni più inconsuete. E' un'indicazione propulsiva anche per un mondo tutt'altro che parallelo alla poesia e alla solarità della comunicazione interiore e letteraria: emblematico a riguardo, un "potenziale lecchino" può farti le scarpe, salvo poi ritrovarsi a sua volta ingannato dalle "dritte" del personaggio che ambiva a imitare, e, di con-seguenza, sostituire (l'effetto "Eva contro Eva" rivisto nel mondo contemporaneo).

Fidarsi ancora di Ridley Scott, in conseguenza alla sua recente carriera costellata di esaltanti (e un po' sopravvalutati) trionfi come "Il gladiatore", di sconcertanti e scioviniste retoriche ideologiche ("Soldato Jane") o di qualche vaga ma sfortunata capacità di cogliere ancora il segno ("Il genio della truffa"), non è davvero facile.
Per gli spettatori i giorni di "Alien", di "Blade Runner" e di "Thelma e Louise" sono definitivamente tramontati con un'epoca: e tuttavia, pur riconoscendogli l'esibizione sfacciata del marketing più retrivo, occorre difenderlo in virtù di un'eclettismo che manca decisamente agli autori di genere, come il John Woo "americano" e tanti altri ancora.

"A good year" è - fin dal titolo - (tratto da un romanzo di Peter Mayle) uno strano film.
Un'opera capace di suscitare sentimenti contrastanti, e che ha il coraggio di fungere da antidoto alla stupidità corrente riportando in auge un'idiozia liberatoria, scanzonata, quasi controcorrente.
La storia è quella di un vero e proprio Squalo della Finanza, Max Skinner, che nella City Londinese riproduce clichè e attitudini tipiche di un finanziere di Manhattan, vero e proprio "mostro" globale del Ventunesimo Secolo.
Un personaggio quasi compiaciuto della sua meschinità, senza un briciolo di umanità, che tratta i dipendenti come "mezze seghe" e li incita esclusivamente a umiliare l'avversario con ogni mezzo e allo scopo di "far soldi".
La sua filosofia di vita sembra collimare con l'ingresso inquietante di una purtroppo impellente necessità sociale: per far andar avanti il mondo, è necessario che esistano molti individui come lui, e che "sacrifichino" la loro anima all'ipotesi del successo finanziario anche e soprattutto personale. In questo frangente (qualcuno obiettivamente dirà "con ragioni meno effimere") il personaggio di Skinner ricorda tremendamente quello di Miranda Priestly alias Meryl Streep in "il Diavolo veste Prada": stesso temperamento, stesse affinità elettive, stesso cinismo, stesso disprezzo verso la corte di "miserandi" che amano odiarlo/a e adularlo/a.

Ma nel giorno dell'ennesimo successo sugli avversari, Max riceve una lettera che gli annuncia la morte dell'amato zio in Francia, nella tenuta "La Siroque" in Provenza, e l'eredità della proprietà dell'anziano parente.
Lo stesso Max, che vive protetto solo dell'alone che lo circonda, dell'ammirazione e del disprezzo che si prova per un'uomo circondato dal "potere" era, un tempo, un ragazzino di nome Freddie Highmore, che accudiva lo zio Henry (Albert Finney) e imparava da lui l'arte del vino, della degustazione, e attraverso ciò egli ha implicitamente rivolto le sue attenzioni "produttive" in altri "campi".
A quel punto, Max abbandona gli affari (per un paio di giorni, si direbbe) per partire verso la Francia che, nei presupposti di Scott, sembra realmente un "mondo lontanissimo" da quello dorato ed egoista della finanza Londinese.
Ma diversi contrattempi ne mutano la natura e l'umore, senza però cambiare del tutto la sua decisione: ereditare una proprietà splendida ma diroccata significa principalmente fare affari e venderla al miglior offerente, tacendo sulle reali condizioni di vendita. Nel frattempo la sua assenza al lavoro rischia di far affossare definitivamente la sua carriera...
Per quanto Max non possa rinunciare ai ricordi del passato, e trovi una nuova e inedita disponibilità nella sua permanenza, difficilmente si lascia convincere a separare l'istinto affaristico dalle sue sensazioni interiori, e sarà proprio questo lungo processo la parte più interessante del personaggio e del film stesso.

"A good year" è un film che esibisce diversi stereotipi (a cominciare dal tema dell'identità che si ritrova dopo un viaggio guarda caso provvidenziale), ma lo fa in modo splendidamente antitetico e artificiale, diciamo controcorrente, come in un puzzle dove non c'è, apparentemente, alcuna unità stilistica, e proprio per questo emerge inconsapevolmente più stile di tanti altri film del genere.
E' una commedia che fa il verso indiscutibilmente ora a Stanley Donen ora a Minnelli, senza dimenticare la lezione del Blake Edwards degli anni sessanta intessuta a una certa "leggerezza" del marchio Disney fuori dagli schemi dell'animazione classica.
Ridley Scott si presenta così, quasi disincantato e inerme fino allo stupore, all'appuntamento con la commedia, incrociando il menage sentimentale a squarci demenziali (l'esilarante e parodistica corsa della campagna Provenzale in una macchina di piccole dimensioni) e continue gags, alternando la frivolezza narrativa con un incipit ambizioso e metaforico sulla metamorfosi di un broker nel confronto diretto e "occulto" con le proprie radici.
E proprio questa necessità quasi tautologica di forzare il personaggio di Crowe del peso di una coscienza mutata (peraltro un tema sfruttatissimo nel cinema da decenni, si pensi a "A proposito di Henry" con Harrison Ford) rischia di privare il film della sua leggerezza formale, e quindi di non riuscire a essere sufficientemente credibile nelle sue pretese "umanistiche".

In realtà è un film popolato da "fantasmi", perché volendo essere franchi la vita di Max è "finita" ben prima di quella dell'anziano zio (un Finney istrionico come sempre che però non fa altro che citare il suo personaggio sognante e fatalista del "Big Fish" Burtoniano), e solo attraverso un suo gesto (rinuncia compromesso o vantaggio, a seconda dei pregiudizi) la potrà ritrovare.
Non può essere "vita" quel pretesto di far soldi, di arricchirsi, rischiando il tracollo per una breve (parola proibita) "vacanza".
O tanto meno vivere circondati da probabili "nemici" o segretarie compiacenti che ne apprezzano solo il lato materialista, del resto l'unico aspetto veramente richiesto in un universo del genere.
Max-Freddie si ritrova confuso tra il fideistico tentativo di sfruttare eventuali risorse della proprietà da cedere (nei panni del notaio, una Valeria Bruni Tedeschi con dizione francese francamente superflua) e le esperienze insieme affettive (la cugina acquisita?) e amorose (la barista) della sua nuova esperienza ambientale.
I dialoghi sono sfacciatamente memorabili (a cominciare da frasi come "l'unico paese che fa i denti così è l'America" cfr. con rispettivo commento della ragazza "meno male, non è francese"), e la tensione linguistica (bruscamente e grottescamente esibita dai sottotitoli) e culturale tra la Francia e l'Inghilterra è solo un pretesto per rievocare quei "rituali" (i cenacoli, la degustazione del vino) che il personaggio di Max ha disconosciuto per anni.
Se esiste un passato, sembra dirci Scott nei flashback (a dire il vero abbastanza convenzionali) di Max ragazzino davanti allo zio, non necessariamente dobbiamo perdere del tutto il contatto con le cose di allora.

E' bella però la metafora di Thomas Mann, e l'aneddoto del libro di cui il protagonista "non è mai riuscito fino in fondo a leggere le ultime pagine".
"Con un titolo come quello ("Morte a Venezia" cfr.) sai già come va a finire" suggeriva lo zio Henry.
E allora è facile giudicare negativamente questo film, tacciarlo di superficialità o dell'esibita disinvoltura con cui ricorre tematiche reali nel modo più convenzionale possibile, però è altrettanto innegabile che "A good year" sia un film che ha una sua vitalità contagiosa, esattamente come il protagonista in un secondo tempo, goffo e inaspettatamente capace di ascoltare anche le proprie emozioni più celate (o risorte?).
Crowe dunque anima il dualismo di un personaggio prevedibilissimo, un po' stridente nella sua autenticità psicologica, ma non insincero quando crede di trovarsi improvvisamente "davanti alla ragione della propria metaforica morte": l'esibizione di una vitalità che non è mai autentica.
Timori dell'umanità di oggi: l'infondatezza della propria verità.

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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 22/12/2006

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