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Janet e Paul hanno perduto il loro figlioletto durante lo Tsunami. Una sera Janet crede di vederlo in un video ripreso in Birmania da un'associazione umanitaria. Decide così di partire alla ricerca del bambino, affidandosi ad un trafficante locale, Thaksin Gao. Ma giunti sul luogo i due si troveranno davanti alla dura realtà di un mondo assai più selvaggio di quanto avessero immaginato, e le loro speranze si trasformeranno nell'arma più potente da cui finiranno per essere feriti.
"Vinyan", ovvero il fantasma del corpo della madre. Fabrice du Welz apre questo delirio visionario molto astutamente con l'immagine della bellissima Emanuelle Bèart. E su questo volto devastato dal dolore che a mano a mano si trasforma in follia, lo spettatore può agilmente seguire le tracce dell'antico mito della Grande Madre. Paul segue Janet come un bambino attraverso la giungla senza avere mai la forza di opporsi, le si affida e finisce fagocitato. I bambini del villaggio si concedono un uccisione rituale e un pasto totemico, per poi celebrare alla fine il corpo della madre per eccellenza, Janet che, annullata dal dolore della perdita si trasfigura in archetipo, la Grande Madre, appunto.
Tutto qua.
Qualsiasi tentativo di vedere altro si frantuma nell'inesplicabile paralisi narrativa che da subito uccide ogni pensiero logico, nello spettatore come nei protagonisti. E se in "Calvaire" almeno la follia aveva una struttura e una forma che si traduceva in semplice delirio, qua il tutto si sfilaccia per lasciare il posto ad immagini archetipe di natura primordiale, che evocano angosce ancestrali, per fortuna sopite da anni di psicoanalisi. Il "Cuore di Tenebra" del regista belga sprofonda da subito nella totale assenza di spessore narrativo, e nella vacua percezione di una verità al di là da venire. Nessuno crederebbe neanche per un istante che un bambino intravisto in un video da una madre completamente annullata dalla sua perdita possa esser un elemento attendibile. Ma il povero marito/figlio decide di crederle e per questo paga il prezzo dell'annullamento, il destino ultimo di chi vive nell'inconscio e fantasmaticamente anela al ritorno nel corpo della madre. Corpo che visivamente ci viene offerto con generosità, a simboleggiare un'opulenza che ci si immagina di certo fantasmatica. La Madre si sa soddisfa ogni bisogno dei suoi figli, e in assenza della possibilità di accudirli, credendoli perduti impazzisce di dolore. Ma forse la possibilità di essere assorbiti dall'inconscio è quella a cui anela Paul dapprima e in certa misura lo spettatore, giustamente rapito dall'avvenenza della Bèart. Nessuno sano di mente rifiuterebbe una congiunzione con un corpo simile. È la madre e la donna, archetipo e figura di riferimento per gli uomini di tutte le culture, che ci si offre e rifiutare è impossibile. Ma se da una parte il tutto è raccontato attraverso il tessuto sfilacciato della perdita di lucidità, è pure vero che una piccola luce a indicare una direzione avrebbe di certo giovato alla messa in scena confusa e pasticciata che si finisce per trovarsi davanti.
Du Welz allestisce una bella ragnatela, entro cui finisce impigliata come prima cosa la logica, poi subito la prudenza, infine la razionalità e la vita. I due sperduti protagonisti in balia di un dolore, comprensibile certo, ma non per questo giustamente meritevole di una scelta distruttiva quanto inutilmente sacrificale, finiscono impigliati nella ragnatela narrativa e nell'ambizione supponente di una significatività altra, che pare affliggere il regista. E se lo spettatore può giustamente invocare il fascino della giungla e del magnifico corpo della madre afflitta, il regista non ha nessuna scusante: il suo racconto è sfilacciato e inconcludente. E non basta un archetipo superbamente rappresentato a salvare il tutto da un'ovvietà avvilente.
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Recensione a cura di Anna Maria Pelella - aggiornata al 23/04/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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