il lungo addio regia di Robert Altman USA 1972
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il lungo addio (1972)

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locandina del film IL LUNGO ADDIO

Titolo Originale: THE LONG GOODBYE

RegiaRobert Altman

InterpretiElliott Gould, Nina van Pallandt, Sterling Hayden, Mark Rydell

Durata: h 1.52
NazionalitàUSA 1972
Generegiallo
Tratto dal libro "Il lungo addio" di Raymond Chandler
Al cinema nel Gennaio 1972

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Trama del film Il lungo addio

L'investigatore privato Marlowe (Gould) non crede che il suo amico Lennox, imputato di uxoricidio, si sia suicidato in Messico è inizia perciò un'indagine personale che si rivela però ben presto tortuosa e pericolosa. Un pericoloso bandito inoltre lo bracca, convinto che Lennox gli abbia affidato una grossa somma. Non mancano scoperte inquietanti tra cui l'esistenza di un triangolo amoroso in cui era coinvolta la moglie di Lennox. Finale con doppio colpo di scena. Ben riuscito ""tradimento"" dell'opera di Chandler, dove ad Altman riesce il miracolo di attualizzare lo stereotipo di un personaggio sin troppo abusato quale è Philip Marlowe. Elliott Gould è in gran forma. Adattamento cinematografico di Leigh Brackett, già sceneggiatore per Howard Hawks di un classico tra i film tratti da Chandler: Il grande sonno (1946), con la coppia Bogart-Bacall.

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Voto Visitatori:   8,00 / 10 (36 voti)8,00Grafico
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Voti e commenti su Il lungo addio, 36 opinioni inserite

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  Pagina di 1  

kafka62  @  07/04/2018 11:22:09
   9 / 10
Un anno prima di "Chinatown", Robert Altman ha girato un film che, pur di gran lunga meno conosciuto del capolavoro polanskiano, rappresenta a mio avviso il risultato cinematograficamente più alto e significativo del processo di rivisitazione critica operato dal cinema hollywoodiano nei confronti del genere poliziesco alla Raymond Chandler. Il Philip Marlowe de "Il lungo addio" (interpretato da un grande Elliott Gould) è, non diversamente dal Sam Spade de "Il mistero del falco") un born loser (come gli rinfaccia l'amico Terry Lennox nella fatidica sequenza finale), ma questa sua condizione di perdente viene amplificata da un approccio con il mondo e con la vita assai più problematico e difficoltoso di quello che caratterizzava l'anti-eroe bogartiano: isolato nella sua esclusiva torre d'avorio (un appartamento all'ultimo piano raggiungibile solo in ascensore), senza neppure una donna da amare (ma con un gatto capriccioso che lo costringe a svegliarsi nel cuore della notte per preparargli il cibo), il Marlowe in versione altmaniana è più bonaccione, più disponibile, più scanzonato dei suoi predecessori, ma è anche, rispetto ad essi, più debole e indifeso, maggiormente dominato dagli avvenimenti esterni. Altman sfrutta però la maggiore umanità del personaggio (ottenuta, come suo solito, per mezzo di una serie di piccoli gesti "rivelatori", dal modo di accendere i fiammiferi all'abitudine di commentare con un autoironico "è OK per me" le situazioni più scoraggianti) non tanto per smitizzare iconoclasticamente il genere o destrutturarlo dal punto di vista della costruzione narrativa (sebbene l'ironia un po' buffonesca di Gould da una parte e l'assenza quasi assoluta di tensione emotiva dall'altra sembrano farlo credere), quanto per portare avanti un discorso più ampio sull'amicizia e sui rapporti umani in genere. Marlowe, pur vantandosi di essere un buon conoscitore della vita e delle sue regole, tarda ad afferrare il bandolo della matassa, si ostina contro tutte le apparenze ad andare nella direzione sbagliata e alla fine viene crudelmente beffato proprio dalle persone (l'amico Terry e Eileen Wade) cui ha concesso la sua fiducia: l'uccisione di Terry, degno epilogo di un film malinconico e crepuscolare, è in fondo, più che la esemplare reazione di un uomo tradito nelle cose che ha più care, la sconsolata e caustica ammissione, da parte del regista, della definitiva perdita di senso, in una società cinica e materialista come la nostra, di ogni ideale o valore.
A supportare questa pessimistica concezione dell'esistenza concorre la stessa struttura formale del film. Le matrici stilistiche de "Il lungo addio" sono infatti l'ambiguità e l'incomunicabilità. La macchina da presa di Altman, pur carrellando e panoramicando meno che in altri film, non è mai ferma e (complice anche un montaggio nervoso) crea un vago senso di disorientamento, di perdita dei consueti punti di riferimento spaziali. La struttura ellittica della sceneggiatura non è estranea a queste argomentazioni, ma più importanti ancora sono le invisibili ellissi, gli impercettibili salti di fotogramma disseminati un po' ovunque, che accrescono, subliminalmente, l'impressione di ambiguità della pellicola. Nel film, inoltre, i personaggi hanno modo di accedere con incredibile facilità alla privacy altrui (attraverso una finestra Marlowe assiste all'incontro tra la signora Wade e Augustine e ascolta il colloquio tra il dottor Verringer e lo scrittore, in uno specchio segreto, a sua volta, egli viene spiato dagli uomini della polizia) (*). Questo eccesso di visione non si traduce però in una maggiore comprensibilità della realtà, né in una accresciuta possibilità di comunicazione interpersonale; al contrario, esso segna il definitivo scacco dell'individuo, costretto ad inseguire affannosamente una verità in conoscibile e confinato in una solitudine senza rimedio. Non inquadrato per definizione, Marlowe si scontra invano con un mondo che non ammette conciliazioni (basta pensare al modo sostanzialmente identico con cui sia i poliziotti sia i gangsters accolgono le sue battute umoristiche) e non lascia superstiti dietro a sé (in questo senso, il suicidio dell'unico personaggio che, oltre al protagonista, ancora possieda un residuo di umanità, vale a dire il signor Wade, assume un valore sacrificale). Non è un caso che il solo gesto di amicizia che il detective riceve nel corso del film (il dono di una armonica) è opera di un uomo completamente fasciato dalla testa ai piedi: al di là delle più o meno attendibili interpretazioni della critica (che vede nella mummia soprattutto una sorta di "doppio" di Marlowe), mi sembra che nella sequenza dell'ospedale Altman esprima con crudo e angoscioso simbolismo il grado zero dei rapporti umani (e simbolico è senz'altro anche il personaggio del gatto che, ad un certo punto del film, come fa notare La Polla, "fugge da un buco su cui sta scritto in spagnolo porta del gato, ovvero attraverso quel confine col Messico che varcherà anche Terry di lì a poco").
Anche prescindendo dal suo aspetto filosofico e morale (non moralistico, si badi), "Il lungo addio" è un film straordinario, talmente inventivo e ricco di trovate originali da poter stare senza sforzo alla pari con le più celebrate opere di Altman: dall'atmosfera stralunata di una Los Angeles ricreata dal magico obiettivo di Vilmos Zsigmond (geniale tanto nelle sequenze notturne illuminate dalla luna quanto in quelle girate sotto la luce accecante del sole californiano) agli strambi e insoliti personaggi che fanno capolino qua e là nella storia (il gangster Augustine, ora dolce e premuroso ora isterico e violento, il quale sembra uscito da un film di Fassbinder, il guardiano del residence di Malibù che si diverte a fare le imitazioni degli attori del passato, il detective imbranato che pedina Marlowe), dall'interpretazione eccezionale di Elliot Gould e di Sterling Hayden (il secondo, soprattutto, giganteggia nella scena della spiaggia quando, dopo essere stato schiaffeggiato dal dottore, anziché far esplodere l'ira furibonda che il suo atteggiamento rodomontesco lasciava supporre, diventa inopinatamente un docile agnellino, umiliandosi davanti a tutti gli ospiti) alla struggente canzone di John Williams e Johnny Mercer (che, diffusa dalla radio, cantata dal pianista di un piano-bar o suonata addirittura come marcia funebre, percorre discretamente l'intero arco della narrazione), tutto contribuisce a elevare "Il lungo addio" al di sopra del livello medio e delle convenzioni di un normale film di genere e a restituire Marlowe e compagni, dopo averli sbeffeggiati con affettuosa nostalgia, all'ineffabile sfera del Mito cinematografico.

(*) Quello dello specchio è un leit motiv ricorrente del film e dà modo a Zsigmond di ottenere virtuosistici effetti ottici, come nella sequenza in cui la macchina da presa assiste dietro la vetrata al dialogo tra i coniugi Wade, riflettendo contemporaneamente l'immagine di Marlowe che gioca con le onde sul bagnasciuga, in una straordinaria sovrimpressione "naturale".

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