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Tutti i post di kowalsky

La classe operaia non va in paradiso

Pubblicato il 19/10/2012 08:34:57 da kowalsky

Una scena dal film "Riff Raff" di Ken Loach


Qualche volta la facevano franca, i detentori di etichette, inserendo tra i generi di film denominazioni che oggi non hanno più alcun credito, come "film sociale". Esiste o no il cinema "sociale"? Un'incrocio tra L'emploi du temps di Laurent Cantet e Riff Raff di Ken Loach? Prendiamo il cinema inglese, se pensiamo all'Inghilterra i due nomi più comparabili sembrano essere - e sono - proprio Ken Loach e Mike Leigh. Se si passa alla letteratura, il primo nome credibile è quello di Jonathan Coe, mentre per i musicisti dovremmo scomodare gli anni '80 di Billy Bragg (un Dylan britannico con tonnellate di socialismo alle spalle), con il Red Wedge fondato in anni di barricate e crisi economica, di Paul Weller e degli Style Council, dei falsi minatori contaminati di soul tipo Dexy's Midnight Runners, o degli oltranzisti pub-hooligans sfamati di nichilismo punk come i Redskins, o altri barricadieri-meteora, gli Easterhouse, e ovviamente i tardo-hippies vezzati in un'immaginaria factory The Smiths.
Un po' poco sul fronte del cinema, molto di più sul piano squisitamente musicale. A cavallo tra gli anni '70 e '80, prima del Diluvio del Thatcherismo più oppressivo, c'erano le pub-band del periodo Rockpile, a dimostrazione che l'Icona del luogo d'incontro è sempre stata la via più diffusa per le contaminazioni ed esperienze ideologico-sociali.
Il Cinema inglese, oltre a un periodo di piccoli fasti di genere come l'esperienza Hammer, e alla commedia di origine teatrale à la Noel Coward - che per i Moderni suppongo faccia l'effetto della riesumazione del cadavere di Nilla Pizzi per un'ennesimo tributo al teatro Ariston di Sanremo - oltre al noir classico impostato da Carol Reed o alla spettacolarità multiforme e nondimeno letteraria di David Lean, visse come qualcuno forse saprà la sua personalissima Nouvelle Vague.



Oggi tutti sanno che esiste(va) un film seminale e innovativo come I giovani arrabbiati (1959) ma nessuno sembra l'abbia visto. E' il primo manifesto importante di una corrente teatrale e letteraria che agiva sotto la dicitura di "Angry young men", per l'appunto. Tra i nomi più rappresentativi, John Debourne e Harold Pinter, futuro sceneggiatore di Joseph Losey. Lo chiamavano Free Cinema e molti pensano sia giusto che se ne parli, ma pochissimi sanno di cosa si parla. E onestamente c'è una discreta differenza tra il Free Cinema e la Nouvelle Vague, sia dal punto di vista stilistico che tecnico-visivo. Probabilmente il free cinema inglese è più uniforme rispetto all'appassionante maquillage del cinema francese, più vicino semmai a quella sorta di antologia da outsiders innescata da registi come Marcel Carné ("Peccatori in blue jeans", "Gioventù nuda"), Jean Delannoy, la falsa vena scanzonata di Jacques Demy e l'America transfugata in Europa del primo Jean-Pierre Melville.
Più che cercare la vanità dell'innovazione stilistica a tutti i costi, come ha fatto Truffaut o ancor meglio Godard, il Free Cinema lascia ai suoi personaggi la possibilità di interpretare con spontanea aderenza (mdp filtrata nello sguardo degli attori o delle attrici) ruolo e soggetto.



Il film più celebrato, per quanto misconosciuto, è ancora oggi Sabato sera, domenica mattina (1960) di Karel Reisz, interpretato da un Albert Finney giovane e splendidamente lontano dai clamori del glamour che rispecchia anche chi si avvale dell'espediente sociale per interiorizzarlo.
Ma prendete un film come Sapore di miele (1961), opera atipica ambientata nella West End londinese o giù di lì. E' la storia di una giovanissima ragazza (Rita Tushingham) che viene messa incinta da un marinaio, e scopre l'amicizia (o meglio, il trait d'union tra due emarginati perenni) con un omosessuale di quartiere. L'ironia malsana che talvolta esprime la protagonista (cito la frase "I thought about you last night, and I felt out the bed twice") quasi stride con l'amarezza della vicenda e dell'ambiente che la circonda. Storie di classi operaie che (non) vanno in paradiso, di gioventù allo sbando ("Gioventù, amore e rabbia" di Tony Richardson), di madri distratte o alcolizzate, di padri assenti, o magari anche di nobili in via di decadenza ("Il servo" di Losey). L'Inghilterra che fa i conti in tasca al proprio delirio economico-culturale non è una novità (v. Charles Dickens) ma fa pensare. Sembra che esista un riflesso drammatico e più profondo tra le diverse classi sociali che in qualsiasi altro paese al mondo.
"L'ingiustizia è sempre perfetta. La gente perbene ha fame. Chi non vale è amato. E chi è buono muore", questa non è come potrebbe sembrare una serie di aforismi dell'ultimo letterato fuori tempo massimo, ma una serie di battute incrociate nel film £I giovani arrabbiati", manifesto del Free Cinema e di una nuova filosofia di pensiero che durerà - come vedremo - per i futuri decenni. Il Free Cinema che aveva alimentato cineasti come John Schlesinger, Jack Clayton, Richard Lester o Lindsay Anderson (il regista del durissimo "Se...", 1969) ha avuto il merito di catturare il disagio sociale e di trasformarlo in un'invettiva universale benché legata monoliticamente alla ferita aperta della collettività inglese.
Se il primo Ken Loach collaborò al movimento, egli è stato in seguito il più deciso divulgatore di questa corrente. Il Free Cinema è stata in fondo la Rivoluzione più attraente e sconosciuta della storia, con i suoi successivi legami alla Swinging London ("Ci divertiamo da matti", 1967, di Desmond Davis) e alla cultura beat (dal Lester dei film sui Beatles al Darling di Schlesinger).


Richard Burton (1925-1984)


Ma più di tutti resta impresso nella memoria dei pochi che lo conoscono le immagini in b/n con i volti di attori più (Laurence Harvey, Richard Burton, Julie Christie) o meno (Tom Courtenay, James Fox) conosciuti chiamati in causa come figure proletarie attraversate da un disagio privato che la gente comune, quella sfacciatamente eletta middle-of-the-road, capisce e più o meno consciamente vive tutti i giorni. C'è però una volontà di riscatto che va ben oltre lo stereotipo della quotidianità dell'operaio di fabbrica o dello studente di belle speranze senza un vero futuro, e in fondo è la stessa che accumuna un bellissimo romanzo di ALAN HOLLINGHURST e La strada dei quartieri alti (1959), capolavoro cinematografico di Jack Clayton. Sono lacrime amare quelle versate dal protagonista, Laurence Harvey, che reclama una posizione sociale abbiente a scapito della felicità, e non è da meno l'amicizia di un ragazzo per un Dorian Gray viziato e vanitoso nel post-moderno "La Linea della Bellezza", in un'Inghilterra già infettata di Aids e meschini compromessi romantici.
Il dualismo del Free Cinema richiama alla memoria un'origine teatrale dove la diversità imposta come atto visivo (cfr. le celebri camicie a scacchi di Albert Finney o i modesti mocassini di un beatnik sedentario) sottolinea la deviante disperazione di una o più generazioni. Non tutti i GIOVANI ARRABBIATI di quel periodo diventarono dei divi, e infatti MIKE LEIGH non ci prova nemmeno a sollecitare questa celebrità. Chi si ricorda i nomi dei protagonisti di Belle speranze, per esempio? O della favolosa interprete di Ladybird Ladybird o magari della giovane sfortunata di Family life, entrambi di KEN LOACH? Se esisteva un Inizio per il Free Cinema (intorno al 1955), non è così facile intravvederne l'epilogo. Ma anche noi, che questa rivoluzione sconosciuta l'abbiamo lasciata estinguere anche nel più lontano dei ricordi, ricorderemo per sempre il buffo volto di Rita Tushingam mentre cerca di liberarsi da quel mondo, attraversando le piccole e anguste strade dei quartieri popolari londinesi, proprio come farebbero tutti i ragazzi di quartiere che cercano una risposta in qualche miraggio abbagliante, oltre le mura sociali delle nostre città

Categorie: Cinema approfondimenti

Commenti: 2, ultimo il 19/10/2012 alle 13.55.36 - Inserisci un commento

Fatti e misfatti

Pubblicato il 16/10/2012 08:36:39 da kowalsky


Provate a immaginare una donna o un uomo bellissimi, 1.90 di altezza, corporatura slanciata e longilinea, oppure possente e prestante nella sua fisicità, la/lo osservate con ammirazione, invidia, desiderio, poi improvvisamente notate qualcosa che non va... vi accorgete magari che indossa un paio di scarpe scadenti o che la gonna o i pantaloni sono macchiati o sdruciti, o ancora si nota il segno di una cucitura dove prima c'era uno strappo. Ebbene, è un po' quello che accade ai talenti del cinema quando latitano le idee, o vivono di rendita. Primo, honoris causa, può essere Woody Allen, l'autore più autoreverenziale del cinema, che non a caso si è concesso a un film-biografia di recente, del tipo "io penso... e vi spiego quello che penso". Da bignami-spiritual guide di Diane Keaton e Mia Farrow - sue ex-compagne - a talent-scout in diverse sceneggiature dove scova negli altri; poco importa se pugili suonati o pornostars, il talento che la sua corporatura gracile non è mai riuscita a concretizzare. Ma dal formidabile “Broadway Danny Rose” di qualche lustro fa, siamo arrivati a un improbabile dilettante allo sbaraglio che canta romanze Verdiane sotto la doccia, come nell'ineffabile e tremendo "To Rome With Love". Tra tante legittime stroncature, c'è anche chi ha trovato sincero il (cattivo) gusto del souvenir d'Italie di Allen, collocandolo nell'ottica di una modernità tutto sommato innocua e indolore. E' un po' la solita storia di chi tra citazioni decorose del cinema classico americano e fissazioni Felliniane, trova tardivamente il modo meno nobile di citare lo Sceicco Bianco del Maestro, oramai totalmente vinto e sconfitto dal suo stesso antico amore... bene ha fatto Sydney Pollack, negli ultimi anni della sua carriera, a riciclarsi come attore. Proprio con Woody Allen ("Mariti e Mogli") e persino con Kubrick, a cui si deve un ruolo da entertainment talmente odioso che rimarrà impresso nella memoria più dei suoi film da regista ("Eyes Wide Shut"). Perché, volenti o nolenti, non trovano più spazio nei ricordi capolavori come "Non si uccidono così anche i cavalli?", "Come eravamo" o "Il cavaliere elettrico" ma nella nostra memoria resta l'onta miserevole di quel "Destini Incrociati" che appartiene di fatto alla Lista Nera dei peggiori soggetti che Hollywood abbia mai scritto, una via di mezzo pietosa tra “Love story” e “Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?” di Billy Wilder, scritto però da un commerciante di hamburger.



La palma del peggior declino nella carriera di un regista va però a John Schlesinger, di cui non finiremo mai di spellarci le mani di applausi per le meravigliose storie che ha raccontato fino all'inizio degli anni '80. Qualcosa comincia a scricchiolare con “Yankees”, ma si fa perdonare una buona fotografia e persino una certa retorica autoriale. Il peggio viene dopo. Tutto sommato “Il gioco del falco” è stato un visto poco visto e visto male, troppo controbilanciato tra pretese d'autore ed effettismo da box-office, comunque realizzato con innegabile mestiere. "The innocent", invece, è proprio un'accozzaglia spionistica senza capo né coda che nemmeno il grand-guignol (la scena del cadavere fatto a pezzi) salva dal fallimento commerciale e artistico. Come se non bastasse, il vecchio John, che nel frattempo ha comodamente mandato in pensione la sua proverbiale cattiveria e asperità, anziché se stesso, realizza “Sai che c'è di nuovo?”, sorta di Canto del Cigno che farebbe rivoltare dalla tomba nientemeno che Tchaikovskji. In tempi dove era così cool rappresentare i gay in tutto il loro coming out (e Rupert Everett l'aveva fatto) cosa c'è di meglio - anzi di peggio - di un attore effeminato che solletica i pruriti morali facendo coppia fissa con la signora Ciccone, in arte M.?



Puoi attraversare una vita senza speranze, e chiederti come mai Terrence Malick abbia usato gli scarti del meraviglioso “The tree of life” per fare un nuovo film, ma “To the wonder” non è spiaciuto a tutti. C'è da chiedersi solo se questa utopistica fede nella bellezza che vacilla riuscirà mai a trovare una risposta, o dovremmo attendere un'ulteriore intervista all'autore più segregato e misterioso del mondo per fare chiarezza. Di autori dal grande passato che si sono trovati in crisi col loro presente il cinema è pieno, pensiamo a De Sica prima della morte, a "Lo chiameremo Andrea" e soprattutto "Il viaggio", ultima tristissima fatica che riesce a rovinare 17 splendide pagine di una magnifica novella di Pirandello; ma non si riesce a perdonare nemmeno il Leone alla carriera, Francesco Rosi, che prima di un passabile ma freddo adattamento di Primo Levi, "La tregua", ha avuto l'incoscienza di seminare l'incauto terrore negli spettatori grazie a Gabriel Garcia Marquez e al suo "Cronaca di una morte annunciata". E' davvero una morte annunciata per il regista, quella di un film che nei primi piani ricorda tremendamente (è stato citato da loro?) lo spot di Dolce&Gabbana per la pubblicità di un profumo in una dimensione mediterranea fatta di eros e passioni frenate. Dopo l'appassionante "Nuovomondo", ormai di antica memoria, si fatica a riconoscere l'Emanuele Crialese che tanta attenzione aveva destato tra i critici nel suo film più recente, benedetto da un Santino prefabbricato che sembra non disdegnare nemmeno Ermanno Olmi nel suo "Villaggio di cartone". Modesto film che nemmeno la tracotante rigidità dell'autore riesce a trasformare in autentica poesia. La svolta pirotecnica ed europea di Abbas Kiarostami ha sicuramente affascinato qualche cinefilo appassionato di Rohmer e Rivette nel suo "Copia conforme", ma non esattamente chi gli aveva aperto il cuore con "Dov'è la casa del mio amico?", "Sotto gli ulivi", o "Il sapore della ciliegia". Cercando di sottrarsi alla dimensione minimalista (e poco europea, ma chi l'ha detto? Dicono niente i nomi di Bresson e Antonioni?) del suo cinema iraniano, il regista di Teheran gira in Francia il suo film più spocchioso, profumato non più dai panorami brulli dell'ex-Persia ma da qualche lavanda acquistata nel centro di Grasse, in Provenza. Il risultato è imbarazzante nella sua inutilità: dialoghi estenuanti sul senso della vita si prolungano fino alla fine, dandoci per questa ragione l'immagine di quel tipo di cinema che piace troppo alla critica d'essai ma che per altre ragioni abbiamo sempre odiato nel linguaggio tipicamente europeo. Bisogna sperare che Allen torni a New York e Kiarostami in Iran (sembra l'abbia già fatto)? Altrimenti la loro corsa contro il tempo perderà di sicuro, e del resto i misfatti restano incustoditi nella memoria, come perenni vergogne da dimenticare, sollevando tonnellate di polvere sui capolavori che ci hanno dimenticato.

Categorie: Cinema registi

Commenti: 6, ultimo il 23/10/2012 alle 20.18.34 - Inserisci un commento

L’orgia del potere, Salò di Pasolini

Pubblicato il 05/10/2012 08:35:28 da kowalsky


Il controverso Salò di Pasolini è uno di quei film davanti ai quali lo spettatore prova un sdegnoso rifiuto o una passiva accettazione, arrivando al punto - oh è capitato già - di compensare con il riso l'univoco imbarazzo e disgusto per certe scene e contenuti. Passa alla storia come il film più estremo che sia mai stato girato, anche se in realtà assistiamo a una metafora hard della nostra condizione sociale. In una vecchia edizione della mostra del Cinema, la retrospettiva dedicata al cinema di Pasolini mise in rilievo questa duplicità. Gli spettatori - davanti al Salò - ridevano di gran gusto (erano tutti sadici? Recitavano una parte?) tanto che alla fine viene da pensare che a recitare la parte di aguzzini nel film non avrebbero deluso. E' un po' come quando, durante una puntata di Quark, un esperimento come quello di un film tedesco che metteva in scena torturatori e vittime mostrò quanto ambo le parti si integravano perfettamente nei loro ruoli trasformando la loro indole in quella di spietati carnefici o remissive vittime. Il Salò è anche un film che rivela sempre nuovi particolari, particolari che ovviamente sfuggono ai molti che - come biasimarli? - promettono di non voler più vedere quel film per il resto della loro vita. E' interessante notare quanto il film faccia perno su una forma grottesca di mise en scène - da De Sade all'Inferno Dantesco - che non disdegna toni ironici, con tratti anche esilaranti (v. la sequenza dei matrimoni combinati anche tra persone dello stesso sesso, e la stucchevole rappresentazione della/o sposa/o degna di uno spettacolo di Copi). E tutta la citazione da Commedia dell'Arte, omaggio al film Femmes Femmes di Paul Vecchiali (con le stesse attrici di quel film, Helene Surgere e Sonia Savange) è un siparietto che riesce miracolosamente a far ridere carnefici e vittime allo stesso tempo. In realtà accade per la seconda volta, dopo la presentazione - forse ignara forse no - delle future vittime davanti alla battuta di un laido personaggio che sembra uscìto davvero dal cinema fascista del cinema italiano di regime, un'Annibale Ninchi magari... Quanti hanno letto la rappresentazione Neutrale del Marchese de Sade? Ebbene, privato delle immagini più scellerate (una parola che nel libro ricorre spesso, scellerate, e quasi sempre in maniera "positiva") le pagine Sadiane trovano un'antidoto brusco alla parola Libertà, idealizzata come una gabbia di perversioni tra le più abbiette e ripugnanti del genere umano, facendo leva sul piacere come forma di distruzione di massa, e contestandone proprio l'implicito effetto erotico. E anche per questa ragione il testo di De Sade non potrà mai essere assunto a livello pornografico, perchè dal piacere trae la sostanza nichilista e iconoclasta del dolore assoluto, della consumazione cerebrale mentale psicologica e fisica della carne e del desiderio. A Pasolini l'aspetto sado-maso di De Sade non interessa, salvo perfezionarlo attraverso un potere temporale che come ammise egli stesso "vale per tutti i tempi". Pasolini ricorda di "odiare il potere che subisce", mettendo in scena la rivolta totale contro il consumismo, il conformismo, le imposizioni sociali. Per questo il Salò può essere nato vecchio, essendo un'operazione che stabilisce, con un nesso temporale preciso ma allo stesso modo infinito, il contesto dell'apologia fascista. Pasolini non perdona agli italiani la complicità alla Repubblica di Salò, al fascismo, denunciando l'eterna condanna a cui siamo stati predestinati fin dalla nostra nascita. E' un fascismo che non ha chiuso i battenti nel dopoguerra, ma che sotto mentite spoglie ha perpetrato altrettanti furti e ignominie trasformandosi in un rituale piccolo-borghese centrista e totalitario.
Come vedranno gli spettatori che ancora provano interesse per il Salò, le vittime - che vengono dal mondo rurale - ben prima, sembra dirci, della rivolta del mondo contadino agiografata dal Bertolucci di Novecento - non riescono quasi mai a ribellarsi alla loro condizione, anzi sembra quasi non provino alcun interesse nel farlo. E' l'aguzzino che li sequestra la loro condanna oppure la proverbiale ignoranza di un mondo assuefatto alla propria condizione, privo pertanto di sogni ed esperienza? Tra i ragazzi prigionieri il figlio di un rivoluzionario è il primo a lasciarsi sopraffare nella sua prigionia, dimenticando i valori del padre e magari il nome del proprio padre. Ma esiste anche un'altra esperienza sottile che comunica disagio e impotenza davanti all'ideologia: uno dei soldati "fascisti" viene improvvisamente scoperto a copulare con una serva di colore (Ines Pellegrini) e prima di essere fucilato solleva fieramente il pugno chiuso in segno di sfida e di vittoria. Più complessa la sequenza, verso l'epilogo finale, del suicidio di Sonia Savange, la pianista, dove non si assiste realmente a un autentico senso di colpa per aver collaborato - anche se da tacita caratterista - a un simile disegno di morte e devastazione insieme a tutti gli altri. Come davanti a un punto interrogativo, lo spettatore ama percepire che sia così, lasciando il dubbio sulla nobile arte della musica costretta a fare i conti con l'esperienza succedanea della violenza visiva e concreta di quanto accade attorno a lei. La rappresentazione del film è molto raffinata, se si tiene conto dei costumi di Caterina Boratto o Elsa de Giorgi o Helene Surgere (le meretrici principali del film) mentre raccontano le loro scandalose esperienze. Il culmine della spettacolarità, anzi dell'anti-spettacolarità arriva proprio nel finale, davanti al quale sembra di assistere a un'omaggio al cinema espressionista muto ritualizzato con schemi prefissati del cinema nordico europeo più all'avanguardia (pensiamo a Carl Theodore Dreyer). La mise en scène è in b/n, rispetto ai barocchismi cromatici di gran parte delle sequenze del resto del film.
"C'era un'atmosfera particolare, sembrava di vivere nella realtà" ricorda un'attrice del film, ovviamente una delle "vittime" più memorabili. Scorrono allora i ricordi di quel forte senso di pericolo davanti a un cast di attori che visse Sodoma e Gomorra con la stessa inquietante percezione della realtà di un fatto di cronaca che poteva riguardarli più da vicino.
Quando ascoltiamo Elsa De Giorgi rievocare le pagine più oscure e raccapriccianti del libro di De Sade non possiamo fare a meno di provare una sorta di morboso interesse ma anche di sollievo davanti alle possibilità che questi aneddoti avessero una loro dimensione visiva e cinematografica. Ed è come dire che il film poteva essere molto più estremo e visivamente intollerabile di quanto non sia stato nella realtà. Ma forse è un'altra indicazione del disinteresse di Pasolini per i cosiddetti "fatti sadici", rispetto a un messaggio sociale tanto forte quanto - come vedremo in seguito - fortemente frainteso.
Il disgusto prende il sopravvento sull'immaginario, al punto che la scatologia (le feci del film erano in realtà, come ammise Paolo Bonacelli, cioccolata ricoperta di canditi) diventa letale soprattutto per l'atto simbolico tradotto come coprofiliaco.
Con Salò Pasolini mette in scena la rivolta totale di quanto aveva già abbondamente rivelato negli anni precedenti, una rivolta verso un sistema che diventa totalitario, fortemente dadaista - come indicato da qualcuno - ma definitivo. La sua brutalità è fortemente espressa fino all'eccesso, salvo preservare una sua intima, per quanto cruda, natura poetica, nell'esibizione dei nudi integrali, nell'inesperienza di ragazzi e ragazze, nella verginità di un rito consumato nella vitalità eterna e dolorosa della sopravvivenza, o della morte. In realtà in questo Inferno decorato da pitture del Rinascimento o da diafane rappresentazioni Giottesche, la prigione sociale coinvolge tutti, specialmente i carnefici, afflitti dalla condizione disperata e inesorabile della ricerca infinita di un piacere mortale, nella liberazione dalle loro infinite perversioni e crudeltà.

Categorie: Cinema registi

Commenti: 10, ultimo il 09/10/2012 alle 21.26.08 - Inserisci un commento

Sunny day

Pubblicato il 02/10/2012 08:39:59 da kowalsky


Era un giorno come tanti altri, e anche qui, in Italia e nella mia città, il sole splendeva alto. Comitive di turisti stranieri, probabilmente americani, si rideva consumando un aperitivo prima di occupare i posti liberi per un succulento pranzo in un ristorante o in una trattoria. Ignari di tutto, come me. Era già accaduto l'irreparabile, ma per una volta le televisioni di tutto il mondo erano rimaste spente. E poi, in quella specie di ritorno a casa, con la bocca che ancora pregustava quel risotto di pesce e con la pancia piena, accendo la tv e vedo tutto quello che si può vedere. Non era facile capire la portata mastodontica di quella tragedia, sembrava tutto così esagerato, così falso, mai così vero. E solo dopo qualche ora ci si rendeva conto che quel giorno non sarebbe stato un giorno qualsiasi. E poi... e poi venne tutto il resto, con il musicista contemporaneo Karlheinz Stockhausen che, giocando rischiosamente con il paradosso tipico dei geni, sparò la sua opinione, che si trattava della "più grande opera d'arte di tutti i tempi" (!!!). Scesero in campo i Michael Moore, i Gore Vidal, e prima di tutto un film collettivo controverso che mette(va) a nudo due aspetti
ambivalenti e diversi al tempo stesso, sulle nostre reazioni occidentali e non sugli Stati Uniti d'America: la partecipazione e la commozione, ma anche la rivendicazione e una sottintesa meschinità verso la nazione più forte del mondo ("Ben vi sta", sembrava dirci la pietà nei nostri occhi appannati). Le lacrime di Bette Midler mentre intona come canto funebre un meraviglioso brano folk-soul, le tante croci parallele che abbiamo visto per commemorare i marines morti in Vietnam, e chissà quante altre guerre. Giardini di pietra, già. Springsteen ne fece un album ("The rising"), ricordando quel cielo incantato dove New York sembrava scoprirsi ahimè più fragile di una foglia staccata dal ramo di un albero. E i Living Color, nel loro bellissimo e poco amato Colleidoscope, ricordavano il volo pindarico ("Flying") verso le Twin Towers che costò la vita a tante persone. Il Mito di Icaro programmato per uccidere, a tanto arriva la follia umana, e ci aveva visto giusto Altman nel suo grottesco e amarissimo "Anche gli uccelli uccidono". Nella morte c'è sempre una forte dose di retorica, e a noi europei non colpì particolarmente il Santino prefabbricato di Oliver Stone, con i pompieri eroici e nel segno di quell'America piegata costretta a sentire sulla propria pelle la condizione di precarietà la stessa provata in tanti anni da altre nazioni meno forti e meno infettate dalla logica della grandezza. Tutto il cinema hollywoodiano ne ha risentito. La tecnologia ad alto uso ha partorito decine di film dove le nostre istintuali percezioni finivano lì, tra quelle macerie e quei corpi straziati dal fuoco, anche quando si parlava della crisi di una coppia newyorkese o di un tizio che trova nel sogno lucido la chiave per ottenere il successo. Alla fine, tutto questo riferimento all'11 Settembre nel cinema diventava insopportabile. Qualsiasi storia poteva avere un riferimento tangibile alla tragedia di quel giorno maledetto, come una ferita che non risparmiava nessuno, tantomeno i produttori di Los Angeles mentre agitano i famigerati miliardi da spendere per la prossima pellicola. E qualche volta, invece, pesa il dramma ben più devastante del silenzio. Per questa ragione, Monty Brogan è l'unico superstite dell'11 Settembre che merita di essere visto al cinema. Le macerie del Ground Zero sono uno spettacolo di deflagazione ben più deprimente ed emotivamente violento di qualsiasi altro "evento" cinematografico. E' quando il Silenzio esprime tutta la verità, è quando la mdp di Spike Lee filtra quell'abisso di macerie, e forse a contare di più è il dramma umano e temporale di un altro newyorkese. Imperfetto, e per questo bello da vedere. Bello da vivere. Un riflesso inconscio e terreno di sopravvivenza.

Commenti: 2, ultimo il 10/10/2012 alle 21.19.33 - Inserisci un commento

Il trionfo del Male?

Pubblicato il 13/09/2012 10:38:06 da kowalsky


Nella rosa dei premi della 69esima Mostra del Cinema di Venezia non c'è spazio per i sentimenti. Se dovessimo far riferimento al film più apprezzato dalla critica nostrana, "Apres mai" di Olivier Assayas, gli studenti francesi del 1971 hanno già abbracciato la lotta armata. Nonostante un finale elegiaco che per alcuni versi ricorda quello dell'ultimo Malick, Venezia 2012 resterà nella memoria unicamente per la sofferta conversione di uno spietato giovane usuraio nella Corea contemporanea, per la religiosità profanante del film di Ulrich Seidl, per il contagio mentale dell'ambizioso film di Anderson. I nostri sogni si sono spezzati, e a vederli lì, confusi tra un amplesso e la scelta della violenza, il cerchio si chiude. Il mondo è uno spazio assoluto dove prevalgono però i monolitismi di uno sguardo che non può vedere "oltre". La barriera, come la ricerca di sé, prevale tutta nell'impotenza di una ragazzina che tenta inutilmente di attraversare una strana parola, libertà. È tutta in quella immagine di un coraggioso film italiano, "L'intervallo". Ma una via di fuga c'è sempre: il William Wilson di Poe e Il servo di Maughan, il Figlio Prodigo e il Padre Padrone figurato dal premio ex-aequo (Coppa Volpi) ai due attori e protagonisti di "The Master". Una sorta di transazione mefitica, paternità e prole non richiesta. La maternità indotta dell'ultimo Kim-Ki-Duk rispetto alla "fusione" maschile e coercitiva di Anderson. Non più Eva contro Eva tra passione e logos, né Caino contro Abele, resta solo il conflitto di un'individualità fragile, incostante, distruttiva.
La 69esima Mostra del Cinema di Venezia, così dimessa e - per fortuna? - così poco radical-chic, si è spenta nel segno di una dolorosa transizione.
La ricorderemo per il dolore interiore di un padre alla ricerca del (corpo) del figlio in "Küf" di Ali Aydin, per la Giostra Umana di vita e di morte di Bellocchio, per gli incesti e le vendette, gli Olocausti dadaisti e le vampire lesbo-chic, l'Italia nel suo Inferno privato (o del neorealismo spicciolo di De Matteo) o alla ricerca di un status-symbol che non c'è (Pietro Germi che rilegge Mark Twain nell'ultimo Ciprì).
Il Premio alla Carriera a Rosi, testimone di Oscuri Avvenimenti, e quello a Redford, ex-simbolo dell'eroe wasp colto guarda caso a rivendicare i diritti civili e le ingiustizie del sistema.
C'è ancora spazio per un giocattolone tridimensionale come "Bait 3-D", per le storie a incastro di "Disconnect" (ahimè neanche l'America si salva dal contesto televisivo) e per Micheal Jackson riletto da Spike Lee nel momento massimo della sua trasfigurazione.
Svaniscono pertanto i tanti interrogativi su cui Malick fonda il suo intero film: perché? E' davvero questo il trionfo del Male?

Categorie: Festival Venezia

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