Era un giorno come tanti altri, e anche qui, in Italia e nella mia città, il sole splendeva alto. Comitive di turisti stranieri, probabilmente americani, si rideva consumando un aperitivo prima di occupare i posti liberi per un succulento pranzo in un ristorante o in una trattoria. Ignari di tutto, come me. Era già accaduto l'irreparabile, ma per una volta le televisioni di tutto il mondo erano rimaste spente. E poi, in quella specie di ritorno a casa, con la bocca che ancora pregustava quel risotto di pesce e con la pancia piena, accendo la tv e vedo tutto quello che si può vedere. Non era facile capire la portata mastodontica di quella tragedia, sembrava tutto così esagerato, così falso, mai così vero. E solo dopo qualche ora ci si rendeva conto che quel giorno non sarebbe stato un giorno qualsiasi. E poi... e poi venne tutto il resto, con il musicista contemporaneo Karlheinz Stockhausen che, giocando rischiosamente con il paradosso tipico dei geni, sparò la sua opinione, che si trattava della "più grande opera d'arte di tutti i tempi" (!!!). Scesero in campo i
Michael Moore, i Gore Vidal, e prima di tutto un film collettivo controverso che mette(va) a nudo due aspetti
ambivalenti e diversi al tempo stesso, sulle nostre reazioni occidentali e non sugli Stati Uniti d'America: la partecipazione e la commozione, ma anche la rivendicazione e una sottintesa meschinità verso la nazione più forte del mondo ("Ben vi sta", sembrava dirci la pietà nei nostri occhi appannati). Le lacrime di Bette Midler mentre intona come canto funebre un meraviglioso brano folk-soul, le tante croci parallele che abbiamo visto per commemorare i marines morti in Vietnam, e chissà quante altre guerre. Giardini di pietra, già. Springsteen ne fece un album ("The rising"), ricordando quel cielo incantato dove New York sembrava scoprirsi ahimè più fragile di una foglia staccata dal ramo di un albero. E i Living Color, nel loro bellissimo e poco amato Colleidoscope, ricordavano il volo pindarico ("Flying") verso le Twin Towers che costò la vita a tante persone. Il Mito di Icaro programmato per uccidere, a tanto arriva la follia umana, e ci aveva visto giusto
Altman nel suo grottesco e amarissimo "
Anche gli uccelli uccidono". Nella morte c'è sempre una forte dose di retorica, e a noi europei non colpì particolarmente il Santino prefabbricato di Oliver Stone, con i pompieri eroici e nel segno di quell'America piegata costretta a sentire sulla propria pelle la condizione di precarietà la stessa provata in tanti anni da altre nazioni meno forti e meno infettate dalla logica della grandezza. Tutto il cinema hollywoodiano ne ha risentito. La tecnologia ad alto uso ha partorito decine di film dove le nostre istintuali percezioni finivano lì, tra quelle macerie e quei corpi straziati dal fuoco, anche quando si parlava della crisi di una coppia newyorkese o di un tizio che trova nel sogno lucido la chiave per ottenere il successo. Alla fine, tutto questo riferimento all'11 Settembre nel cinema diventava insopportabile. Qualsiasi storia poteva avere un riferimento tangibile alla tragedia di quel giorno maledetto, come una ferita che non risparmiava nessuno, tantomeno i produttori di Los Angeles mentre agitano i famigerati miliardi da spendere per la prossima pellicola. E qualche volta, invece, pesa il dramma ben più devastante del silenzio. Per questa ragione,
Monty Brogan è l'unico superstite dell'11 Settembre che merita di essere visto al cinema. Le macerie del Ground Zero sono uno spettacolo di deflagazione ben più deprimente ed emotivamente violento di qualsiasi altro "evento" cinematografico. E' quando il Silenzio esprime tutta la verità, è quando la mdp di
Spike Lee filtra quell'abisso di macerie, e forse a contare di più è il dramma umano e temporale di un altro newyorkese. Imperfetto, e per questo bello da vedere. Bello da vivere. Un riflesso inconscio e terreno di sopravvivenza.
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