Gianni, non ci lasciare!
All’indomani della conclusione del TFF, pubblico e critica lanciano un appello affinché
Gianni Amelio (o
Pupi Avati, tanto è uguale), rimanga incollato alla poltrona di direttore (richiesta insolita per gli italiani). Ma nonostante l’incremento dei dati d’affluenza sia lì a registrarne palesemente il successo, la sua fine purtroppo sembra ormai prossima, salutata dal passaggio di testimone quasi certo a
Gabriele Salvatores. Un vero peccato, perché in un autunno caldo brulicante di manifestazioni cinematografiche che si spintonavano tra loro (e non è finita, il
Milano Filmmaker è partito il 30 novembre e durerà fino al 9/12), la luce delle pellicole proiettate all’ombra della Mole è stata indubbiamente la più brillante.
Per buona pace di Anselma Dell’Olio, un fittissimo ventaglio di anteprime (oltre 160) ha sancito la sconfitta del glamour, regalando un’edizione tutta incentrata sul tema dell’identità, scandagliato negli aspetti più turpi e deviati dalla malatissima sezione “Rapporto confidenziale”.
A svettare incontrastato
Chained, pugno allo stomaco firmato Jennifer Lynch, che a differenza del
padre non si serve della dimensione onirica per alleggerire l’atmosfera e smorzare i toni del suo incubo domestico, ma sceglie una messa in scena cruda e realista per scatenare la violenza
dell’inconscio.
(Prima di risalire su un taxi ci penseremo due volte).
Restando sempre nell’ambito del cinema a gestione famigliare, in K-11 la mamma della vampira di Twilight
Kristen Stewart, ci mostra le ignobili condizioni di sopravvivenza dei detenuti di un braccio carcerario destinato a gay, trans e pedofili, il K-11 appunto, calando l’obiettivo tra le pareti unte di un trash movie (dove per trash s’intende in questo caso il richiamo alla sporcizia) claustrofobico e politicamente scorretto.
Ci sono poi il bullismo e la violenza amatoriale di V/H/S, accozzaglia di omaggi tremolanti all’horror in presa diretta (
The Blair witch project,
REC e
Paranormal activity), ma garanzia sicura per il divertimento scacciapensieri degli amanti del genere.
Ci si è potuti inoltre rendere complici di un gioco sadico ai danni di una ragazzina rinchiusa senza vestiti nel magazzino di un fast-wood (prima di tornare al Mcdonald’s ci penseremo due volte), seguendo scrupolosamente gli ordini della legge in
Compliance, polemica rivolta alla cieca fiducia riposta nelle autorità;
e si è potuto provare il brivido di stringere tra le proprie mani l’esile collo di una giovane vittima, vederla implorare pietà, sgozzarla in sincrono con il respiro e le pulsioni del maniaco sessuale e folle omicida di
Maniac, magnifico remake girato tutto in soggettiva.
Si capisce invece poco l’inserimento di Thanks for sharing, coerente nelle premesse (maschi adulti malati di sesso si iscrivono ad un gruppo di sostegno), ma risoltasi nella retorica delle tradizionali commediole americane pregne di moralismo (c’è Gwyneth Paltrow), lontana anni luce dal desolante spaccato metropolitano emerso nello
Shame di Steve Mcqueen (quello di colore).
Spostandoci in TorinoXXX, spazio dedicato alla celebrazione del trentennale della kermesse,
Holy Motors di Leos Carax ha raccolto il maggior numero di applausi, divenendo il film più discusso e apprezzato dell’intera rassegna. Un’opera complessa, dalle mille sfaccettature come mille sono i personaggi in cui il trasformista
Denis Lavant si cala, sfogando in chiave simbolista e meta-cinematografica l’alienazione dell’uomo contemporaneo, costretto ad indossare ogni giorno una maschera diversa e a recitare più ruoli sociali.
Tra gli autori presenti in concorso, oltre a Scott Graham vincitore del palmarès con Shell, storia di solitudine esistenziale tra un padre e una figlia confinati in una stazione di servizio, si è distinto l’italiano Giovanni Columbu, autore di Su Re. Rivisitazione sarda della passione di Cristo,
fortemente sostenuta da
Moretti e distribuita dalla Sacher, ha il pregio di smontare l’iconografia classica del Gesus Christ Superstar bello, biondo e con gli occhi verdi, destinando il martirio ad un cristo brutto, che riflette su di sé l’asprezza del paesaggio circostante.
Ma sarà probabilmente l’esplosione visionaria a stento contenuta in “Festa mobile”, l’unica ad accedere prossimamente nelle sale. L’uscita di
Ruby Sparks è già programmata per questo week-end, adatta a spettatori di tutte le età. Dalla macchina da scrivere di un rampante scrittore troppo pieno di sé per donarsi agli altri, prende vita la ragazza dei sogni, controllata dal battito dei caratteri selezionati a formare le frasi con le azioni da compiere.
Il richiamo per Blancanieves, esperimento spagnolo muto e in b/n, lo consente
The Artist. Se però il trionfatore agli oscar 2011 omaggiava il passato da un’ottica odierna e imbastiva una riflessione sullo statuto del post-moderno, le intenzioni di Pablo Berger sono quanto mai superflue e riguardano la semplice (senz’altro godibile) realizzazione estetica datata 1929, limitata alla sottrazione di suoni e colori.
Così come i fans di Fellini, attirati dalla trama, accorreranno a vedere L’étoile du jour, per poi restare delusi nello scoprire che si tratta di un surrealismo videoclipparo fine a se stesso, che stupra il mondo del circo come fatto dalla recente
Ballata dell'odio e dell'amore, sperando di succhiarne la linfa vitale e accaparrarsi un briciolo di quel furore creativo. (Nemmeno Iggy Pop salva la baracca).
Per l’
Anna Karenina di Joe Wright invece, non servono scuse perché si sfiora il capolavoro.
Sfavillante miscela barocca contaminata da elementi teatrali (sequenze racchiuse dalla cornice di un palcoscenico, metafora del dramma umano in cui è intrappolata l’eroina tolstojana; tableaux vivants atti a simboleggiare l’ingessatura della società moscovita di fine ‘800), trasposta in una
coloratissima chiave pop sullo stile della
Marie Antoinette di coppoliana memoria, ma meno antipatica.
Anche rispetto a Muller.
Perché al Festival di Roma non si sono accorti che il popolo aveva fame e mancava il pane. Mentre a Torino, per fortuna, si è fatto incetta di brioches.