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Dal 1975 ad oggi, "Amici miei" è entrato nelle case e nel cuore di tutti. E' una commedia estremamente divertente, in cui una riflessione dolceamara sulla vita fa da sottofondo ad una serie di gag strepitose e geniali.
"Amici miei" è la storia di quattro amici di mezza età, che non hanno mai perso il loro spirito allegro con cui affrontare la vita. Irresistibilmente attratti dalla celia, approfittano di ogni occasione per mettere in atto qualche fantasiosa goliardata: una battuta brillante, una frecciata ironica o una burla geniale, che può essere improvvisata ma anche architettata durante una gita fuori porta (la famosa "zingarata", termine entrato nel linguaggio comune soprattutto proprio grazie al film).
In conseguenza di un'intricata storia d'amore, al quartetto si aggiunge un quinto elemento, che in breve tempo si integra perfettamente al resto del gruppo, diventando anch'egli pedina essenziale nell'ordire scherzi elaborati ed indimenticabili.
La filosofia del non prendere nulla sul serio viene applicata con estrema coerenza. Ogni persona può essere vittima (studentesse e paesani, vigili e pensionati). Ogni luogo può essere lo scenario ideale (un ospedale o una villa, un paese o una stazione). E ogni momento può essere sdrammatizzato, persino la morte di uno degli amici.
"Amici miei" è una pietra miliare del cinema, l'apoteosi della commedia italiana.
Su una colonna sonora vagamente malinconica, che diverse volte ritorna su un notissimo tema verdiano tratto dal "Rigoletto" (chi non ha mai canticchiato "Bella figlia dell'amore" dopo aver visto il film?), si susseguono scene memorabili: il ricovero in ospedale e il corteggiamento di Donatella; l'imbucata alla festa; l'ossessione del Mascetti che chiede sempre "un gettone" per chiamare la sua Titti; lo scherzo a Nicolò Righi, "pensionato delle poste". Ma ci sono soprattutto due trovate che sono divenute le più conosciute, indimenticabili e copiatissime: la supercàzzola e gli schiaffi alla stazione.
Nei suoi toni scanzonati e nelle sue riflessioni esistenziali, "Amici miei" potrebbe essere la storia di ogni amicizia. Un sempreverde adatto per ogni generazione, perché cambiano le città, il vestiario, il modo di vivere e il tempo in cui si vive; ma il piacere cameratesco, goliardico, spensierato dello stare insieme è una sensazione che ogni uomo è destinato a sperimentare nella sua vita. Chiunque potrebbe far proprie le riflessioni del Perozzi:
"Cari amici miei. Mentre me li guardo a uno a uno mi domando, con improvvisa tenerezza, come mai quest'amicizia è durata tanto. Un'amicizia con regole precise anche se non ce le siamo mai dette. (...) E poi il diritto al reciproco sfottimento e alla canzonatura. E la totale e tacita solidarietà appena si tratta di giocare con l'esistenza. Ma più che altro la voglia di ridere e il gusto difficile di non prendersi mai sul serio".
"Amici miei" è celebrazione dell'amicizia sincera e spensierata, un unico linguaggio che accomuna persone radicalmente differenti. Basti pensare ai protagonisti: uomini dai caratteri diversi, che appartengono alle più disparate classi sociali e che vivono vicende amorose e familiari totalmente differenti.
Il Perozzi, voce narrante, è redattore presso un giornale. Un burlone, ma calmo e riflessivo. Ha un figlio ed è separato dalla moglie.
Il Melandri è un architetto. Un single estremamente facile all'innamoramento, passionale, a tratti isterico.
Il Mascetti è un conte decaduto. Povero ma orgoglioso, cerca sempre espedienti con cui mantenere moglie e figlia, ma nel frattempo impazzisce per la sua giovane amante.
Il Necchi, brillante e sereno, è proprietario di un bar e sembra felicemente sposato.
Il Sassaroli è un uomo di carattere. Medico stimato e benestante, abbandona la moglie, viziata e instabile, e il resto della famiglia in mano al Melandri, che se n'era innamorato.
Questi uomini non potrebbero essere più diversi tra loro. Eppure, la loro amicizia azzera le differenze. Non più "io", ma "noi": si passa alla dinamica del gruppo, assurto a valore tanto importante da entrare in competizione con altri valori primari, come la famiglia. Un legame così stretto che nulla (forse la morte, o forse nemmeno quella) è in grado di comprometterne la solidità.
Il gruppo è allora espressione di amicizia parificatrice e salvifica, vissuta in uno spirito divertito che esalta l'umanità dei protagonisti. Ecco perché si può dire che questo film, parlando di ogni uomo, parla ad ogni uomo.
Se in "Amici miei" si dovesse individuare una filosofia di vita, sarebbe senz'altro il non prendere mai nulla sul serio. Nemmeno sé stessi.
Si pensi al Perozzi. Un geniale burlone che vive solo. Come se avesse preferito perdere moglie e figlio, piuttosto che la capacità di sorridere. Una capacità che i musi lunghi non sanno perdonare: nell'ipocrisia sociale, è frequente l'accostamento della "risata" alla "immaturità". Il rimprovero del figlio è per il giornalista occasione di una riflessione esistenziale semplice, lineare, ma significativa:
"Io restai lì a chiedermi se l'imbecille ero io, che la vita la pigliavo tutta come un gioco, o se invece era lui, che la pigliava come una condanna ai lavori forzati, o se lo eravamo tutti e due. Lui è un leopardiano. E io no. Leopardi, seduto dietro la siepe, in cima alla collina, pensando all'infinito si metteva a piangere a dirotto. Io invece dopo un po' mi metterei a ridere. E trovo questa mia posizione altrettanto rispettabile e degna di considerazione."
Questo spirito monicelliano non è assolutamente superficiale.
Da una parte, i pessimisti potrebbero definirlo "fuga dalla realtà": una zingarata è una dolce parentesi che allevia il mal di vivere; una risata allevia l'uomo dal pesante pensiero della vecchiaia e della morte. E' un dubbio che per un attimo si affaccia anche alla mente del Perozzi: "Notti, giorni, amori, avvenimenti. Ho già sulle spalle un bel fardello di cose passate. Che sia per questo, per non pensarci, per non sentire il peso di tutto questo, che mi ostino a non prendere nulla sul serio?".
Dall'altra parte, gli ottimisti potrebbero definirlo "stile di vita": la vita merita di essere vissuta perché in ogni attimo se ne può ricavare un sorriso. Si pensi al Mascetti, dalla vita misera e miserevole. Eppure...
"Era felice. Questa è la sua forza e la sua bellezza. Gli basta una farfalla, nel buio più nero, per dimenticare sciagure e difficoltà; gli basta un estro di gioco o di scherzo, o una commozione che lo prenda all'improvviso, e tutta la vita gli ridiventa gioco, o scherzo, o commossa partecipazione".
Evidentemente ogni uomo ha diritto di decidere come leggere la propria vita. Entrambe queste riflessioni, come direbbe il Perozzi, sono rispettabili e degne di considerazione.
L'uomo dovrebbe solo ricordare che è molto più facile piangere su tutto che ridere di tutto.
I nomi che lavorano ad "Amici miei" sono essi stessi garanzia di qualità.
Il cast è stellare: i cinque amici sono interpretati da Philippe Noiret, Ugo Tognazzi, Adolfo Celi, Gastone Moschin e Duilio Del Prete.
L'idea originale risale a Pietro Germi (1914-1974), importante sceneggiatore e regista (tra gli altri lavori "Divorzio all'italiana", "Sedotta e abbandonata" e "Serafino") che, a causa della malattia, dovette cedere il progetto all'amico Monicelli.
Mario Monicelli è stato un gigante del cinema italiano.
La sua lunga vita (1915-2010) si spegne tragicamente nel nuovo millennio dopo aver attraversato l'intero "secolo breve". Monicelli è l'italiano novecentesco per eccellenza: spettatore di tutti i tragici eventi storici del secolo scorso e delle evoluzioni sociali del Paese, egli ne vive la drammaticità riproponendola nei suoi lavori ("La grande guerra", "I compagni", "Un borghese piccolo piccolo"). Anche la commedia monicelliana è sempre calata in un contesto storico e sociale ben definito, che funge da sottofondo agli eventi vissuti da protagonisti che fanno ridere e piangere, sorridere e riflettere ("Vogliamo i colonnelli", "I soliti ignoti").
Nelle opere del Maestro vengono immortalati i tratti peculiari dell'italianità. Monicelli ritrae l'italiano come il cittadino di un Paese inquieto e difficile, un uomo che può essere mammone, pavido e farfallone, ma che nel momento della prova sa dimostrarsi estremamente risoluto, generoso ed ottimista. Una nobile macchietta, un perdente dal grande cuore ("Un eroe dei nostri tempi", "Il Marchese del Grillo"). Questi sono i tratti che caratterizzano la commedia di Monicelli: un'ironia mai fine a sé stessa, che non scade mai nel demenziale, ma che è sempre percorsa da una leggera venatura drammatica. O forse al contrario: una drammaticità che non scade mai nel patetico, ma che viene sempre stemperata nelle tragicomiche vicende dei piccoli grandi eroi nostrani. Personaggi che diventano icone del cinema, resi indimenticabili dalle interpretazioni dei più grandi attori del "gotha" cinematografico italiano: tra gli altri, Totò, Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi e Alberto Sordi.
Monicelli è da annoverare tra i padri della migliore commedia italiana, un genere a cui il Maestro ha saputo dare un rinnovato lustro, tanto da rendere le commedie italiane note in tutto il mondo. Il suo indiscusso talento e la sua creativa genialità, premiati con numerosi riconoscimenti a livello internazionale, hanno fruttato al regista ben sei nomination agli Oscar. Un livello impensabile per le commedie nostrane d'oggigiorno.
Se il lascito artistico di Monicelli consiste in un'enorme produzione cinematografica (regista di oltre sessanta film, sceneggiatore di un centinaio), il suo lascito morale risiede nello spirito sagace, intelligente ed ottimista con cui abilmente sdrammatizzava ogni situazione. Sul suo sito ufficiale campeggia tutt'oggi una significativa citazione di Sant'Agostino: "Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra".
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Recensione a cura di ilSimo81 - aggiornata al 19/03/2012 15.15.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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