Recensione andro' come un cavallo pazzo regia di Fernando Arrabal Francia 1973
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Recensione andro' come un cavallo pazzo (1973)

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locandina del film ANDRO' COME UN CAVALLO PAZZO

Immagine tratta dal film ANDRO' COME UN CAVALLO PAZZO

Immagine tratta dal film ANDRO' COME UN CAVALLO PAZZO

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Immagine tratta dal film ANDRO' COME UN CAVALLO PAZZO

Immagine tratta dal film ANDRO' COME UN CAVALLO PAZZO
 

Ricchissimo e grottesco capolavoro surrealista, intriso di critico e criptico simbolismo.

In apparenza c'è una trama semplice: un uomo, Aden, ritenuto l'assassino della propria madre, fugge nel deserto, dove incontra un ometto bizzarro, Marvel, che cambierà la sua vita. In realtà è un pretesto per mascherare un'autobiografia arricchita da spunti infiniti.

Storia di un Edipo moderno: vulnerabile ed impreparato al mondo perché castrato dalla madre, Aden cresce nell'amore totalizzante ed univoco di lei ("Nessuno ti amerà come ti amo io") e per lei, che arriva persino a suggerirgli come dovrebbe ucciderla senza lasciare indizi.

Gli occhi si aprono nell'incontro con Marvel, ometto e Messia, ingenua purezza e amore generoso. Origine, via e mèta della redenzione di un uomo.

Fernando Arrabal, classe 1932, spagnolo. Puro genio creativo. Un artista inquieto  ed instancabile, che ha lasciato il proprio significativo contributo in pressoché ogni forma espressiva artistica: oltre a sette lungometraggi, Arrabal ha composto qualcosa come ottocento libri di poesie, quattordici romanzi, una ventina di saggi, un centinaio di opere teatrali, cinquanta quadri e un centinaio di disegni. Un vastissimo arsenale di enorme potenza espressiva, il cui valore è stato spesso onorato con premi prestigiosi.
"Andrò come un cavallo pazzo" è il suo secondo lungometraggio.
Uscito nel 1972, segue di due anni "Viva la muerte" e in un certo senso lo completa. Se è vero che "Viva la muerte" si distingueva per la presenza di tratti più marcatamente autobiografici e di toni spiccatamente politici, il seguito ne mantiene le derive surrealiste nel raffigurare il racconto-metafora del rapporto totalizzante tra figlio e madre. Il punto d'incontro tra le due opere si individua nella critica radicale a tutto ciò che vi è di castrante nella vita umana: un amore morboso, le situazioni storico-politiche oppressive, gli effetti collaterali del progresso sociale.

Ogni fotogramma trasuda metafora. Come la vita di Aden è sistematicamente intervallata da improvvisi flash-back, accompagnati dal trottare di un cavallo pazzo, così la storia narrata è intervallata da momenti altamente simbolici, più o meno criptici.

Nel complesso, Arrabal effettua a più riprese una pesante critica nei confronti di tutte le contaminazioni che l'uomo ha operato sul mondo e su di sé. Emblematica l'immagine di due persone che fanno l'amore in mezzo ad un prato, totalmente nude, ma con una maschera antigas.
Uomo protagonista di una superficiale e controproducente ricerca di una felicità che già gli appartiene. Diceva Shakespeare: "Cercando il meglio, spesso guastiamo il bene" ("King Lear"). Tutto questo viene espresso tramite lo sguardo, limpido ed ingenuo, di Marvel sulla civiltà. Marvel, abituato all'aria pulita, vede gli uomini farsi del male portando alla bocca sigari e sigarette in un gesto assimilabile al poppare dal seno materno. Marvel, abituato a una grotta nel deserto, vede la casa lussuosa comprata da Aden e dice: "Mi piace molto, ma a cosa serve?". Marvel, che quando Aden non sa rispondere alla domanda "Cos'è la felicità?" si precipita verso di lui, correndo sorridente e nudo giù da una duna. Marvel, abituato a soddisfare le necessità primarie, vede i soldi e i gioielli con cui Aden può comprare ogni cosa, e gli chiede: "Anche la salute? L'amore? La felicità? Danno il latte come le capre?".

Le opere di Arrabal sono percorse da diverse correnti artistiche, ma "Andrò come un cavallo pazzo" è essenzialmente figlio di influenze surrealistiche, dovute anche alla collaborazione di Arrabal con André Breton. Il "Manifesto surrealista" (scritto dallo stesso Breton nel 1924) definisce il surrealismo come un "automatismo psichico puro", un meccanismo espressivo fondato sulla "onnipotenza del sogno" e sul "gioco disinteressato del pensiero", funzionante "in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale". In chiave cinematografica, si tratta di rappresentare le profondità inesplorate dell'animo umano e della realtà, portandone in superficie i lati finora rimasti inespressi: ne deriva una nuova estetica che non si preoccupa di rappresentare l'inconscio della psiche, le repressioni sessuali, le sensazioni forti e violente, le immagini brutte e sporche.

Arrabal ne attinge a piene mani. Sangue e sperma, urina e feci. Cadaveri e scheletri. Coprofagia e necrofagia. Nudità e ambiguità sessuali. Eppure nessuno di questi eccessi è fine a se stesso: tutto assume rilevanza nell'ottica di insieme. Il surrealismo come chiave di lettura del film ne spiega i flash-back improvvisamente rievocati secondo un libero "stream of consciousness"; ne spiega le metafore incastonate qua e là; ne spiega gli eccessi visivi.

Il frutto è marcio e prezioso. Bisogna accettare il grottesco, scendendo a patti con la propria sensibilità davanti ad un film visivamente crudo.

Non è un film non per tutti. Si deve essere disposti a lasciarsi coinvolgere, con mente libera, incondizionata e recettiva.
L'occhio si troverà ad incespicare davanti alla recitazione non eccellente degli attori o davanti ad effetti speciali estremamente rozzi. Pregio e difetto di un'opera surrealista datata 1972. In compenso, la mente vivace si nutrirà della ricchezza di questo film, tanto che potrebbe parlare per ore delle sue immagini e dei suoi contenuti, dei riferimenti storici ed autobiografici. E' un'opera complessa da affrontare e sviscerare, che di visione in visione si arricchisce di nuove possibili interpretazioni e nuovi dubbi.

Tutto il simbolismo di Arrabal si esprime attraverso due espedienti.

Il primo è il travestitismo. Molte volte un personaggio indossa i panni di un altro: per devianza (il travestito amato da Marvel), per immedesimazione (Aden che indossa la biancheria della madre) o per finzione (Marvel che indossa un abito da uomo per diventare attraente). Non sembra azzardato leggere tra le righe un monito: curiosamente, infatti, ad ogni episodio di travestitismo segue un evento drammatico. La finzione non porta a nulla di buono.

L'altro espediente è il paradosso. Tutti i paradossi si concentrano in Marvel, spirito puro e perfettamente inserito nel mondo allo stato brado che l'uomo contemporaneo non conosce più. Tutto ciò che schifa l'uomo è vita per Marvel: per vivere mangia escrementi; per salvare la vita dell'amico ferito crea un impasto di terra e urina; quando ama non fa distinzione di sessi, e bacia l'amico Aden come bacia la donna che incontra, senza sapere che in realtà è un uomo (e qual è il messaggio? Marvel non se ne avvede e viene raggirato perché estremamente ingenuo? Oppure lo sa ma, dimostrando di conoscere un amore universale, resta indifferente alle distinzioni di genere? D'altra parte si sta parlando di un uomo capace di amare anche la sua capra).

Come si può amare una creatura del genere? E' un barbaro che vive nel deserto, un nano brutto, sporco e rozzo, che si ciba di escrementi avvolti in petali di rosa. Prendetelo e trasportatelo nel "mondo civile": visto per come appare, verrà rinchiuso nella gabbia di un circo, esotica folle attrazione per il fugace divertimento dell'uomo.

Il viaggio deve essere al contrario: è l'uomo a dover andare nel deserto. Solitudine del proprio cuore, silenziosa ricerca di salvezza, unico luogo privo di sovrastrutture sociali, affettive e personali. Ripulire gli occhi e il cuore per poi vedere la redenzione nei panni di Marvel: un ometto che non ha niente ma che ha tutto; un ometto che da cent'anni, o forse da cinquantamila, vive sereno, mostrando all'uomo cieco la via della salvezza, disponendo persino del giorno e della notte.

Allora Aden potrà apprezzare Marvel e tutta la semplicità che egli rappresenta, amandolo al punto da dargli tutto ciò che ha, tutto ciò che è. Parabola di un rapporto salvifico, iniziato nella grottescamente sublime immagine dei due che defecano spalla a spalla nella sabbia e conclusosi con quel tremendo e pietoso atto di cannibalismo con cui Marvel rende Aden parte di sé.

Non sei più ricercato, sei salvo. Non sei più morto, sei vivo. E sei finalmente libero di danzare nel sole.

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Recensione a cura di ilSimo81 - aggiornata al 12/03/2012 16.56.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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