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"Dopo aver già da tempo abbandonato il legame con l'etimo greco di morte buona, il termine eutanasia viene usato nell'attuale dibattito in sensi spesso molto diversi. Frequentemente si distingue fra eutanasia attiva - o positiva, o diretta -, là dove il medico, o chi per lui, interviene direttamente per procurare la morte di un paziente, ed eutanasia passiva - o negativa, o indiretta -, dove si ha invece astensione da interventi che manterrebbero la persona in vita. Si distingue inoltre fra eutanasia volontaria, quella esplicitamente richiesta dal paziente, ed eutanasia non volontaria, quando la volontà del paziente non può essere espressa, perché si tratta di persona incapace.
Eutanasia si oppone talora a distanasia o ad accanimento terapeutico, che indicano invece il ricorso a interventi medici di prolungamento della vita non rispettosi della dignità del paziente.
Una delle caratteristiche definitorie dell'eutanasia è dunque il suo obiettivo di ridurre la sofferenza.
Pazienti con una sofferenza non controllata possono vedere la morte come l'unica fuga dalla sofferenza che stanno sperimentando. In ogni caso, la sofferenza non è solitamente un fattore di rischio indipendente. La variabile significativa nel rapporto fra sofferenza e suicidio è l'interazione fra sofferenza e sentimenti di disperazione e depressione.
In Italia, la pratica eutanasica configura i reati di omicidio del consenziente (Codice Penale art. 579) e di istigazione al suicidio (Art. 580).
Rispetto al suicidio, nell'eutanasia vi è un elemento nuovo: l'intervento di un'altra persona, quasi sempre medico o operatore sanitario, inteso ad alleviare il dolore mettendo fine alla vita di un paziente.
"Bisogna rispettare la libertà del paziente", si ripete spesso da parte dei sostenitori dell'eutanasia: si può rinunciare liberamente alla libertà, alla condizione fondamentale del suo normale esercizio, la vita?
La responsabilità del medico è accostarsi al paziente per alleviarne le sofferenze fisiche e spirituali, non essendo arbitro della sua vita e della sua morte.
Una volta affermato che la vita "senza valore" può essere soppressa, a chi spetterà il diritto e il dovere di stabilire quando la vita è tale?
Perché dovrebbero "beneficiare" del diritto all'eutanasia solo i malati, o solo gli anziani, o solo i malati gravi?"
Estratto da "Eutanasia" di Lorenzo Cantoni, dal sito www.alleanzacattolica.org
ELUANA ENGLARO R.I.P.
La lunga diatriba sulle questioni etiche e morali riguardo l'eutanasia mette in luce, ancora una volta, un mondo, come quello cattolico, ancorato all'idea di sacrificio, morale e soprattutto spirituale, su cui si basano i fondamenti religiosi della vita. Tuttavia non è chiaro come possano costoro dividere, nel loro insegnamento, la morte fisica dalla cosiddetta resurrezione alla casa di Dio. Il diritto alla vita, a giudicare dal rigore dei dogmi, è inversamente proporzionale al diritto di morire. Il corpo si plasma in una sopravvivenza fetale e astratta, fino a negarsi completamente. Vero, esistono emozioni enormi da ristabilire, ma occultate, compresse in un'anima che non permette di diffonderle. Se il dolore degli altri è devastante, il paziente è attaccato solo alla flebile speranza di una resistenza fisica che non mostra alcun segno di vita.
Il 18 Gennaio 1992, una ventenne, Eluana Englaro, viene ricoverata a Lecco in seguito a un terribile incidente stradale, dove resta in stato vegetativo per diversi anni, alimentata solo da un sondino naso-gastrico. Nel 2000 il padre, Peppino, si rivolge al Presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi per chiedere di interrompere l'accanimento terapeutico della figlia. Nel 1993 le condizioni della corteccia cerebrale di Eluana si aggravano ulteriormente. Nel 1999, nel 2003, nel 2006 i giudici negano le richieste del padre. Solo nel 2008, la Corte d'Appello di Milano autorizza la sospensione delle cure, mentre l'11 Ottobre dello stesso anno le condizioni di Eluana si aggravano per un'emorragia interna. Il quarto giorno senza alimentazione enterale Eluana muore. Ne nasce un dibattito politico culturale e religioso senza precedenti, che coinvolge, nel bene e soprattutto nel male, Presidenti del Consiglio e partiti politici, parlamentari e senatori, giornalisti e medici. Tra le poche dichiarazioni tristemente condivisibili e non deliranti, quella del primario Umberto Veronesi "Eluana è morta 16 anni fa".
"Questo film non è ideologico, ma è un grido di libertà che sembra il grido di mia figlia... hanno qualcosa di profondo che li lega."
Peppino Englaro
"Ho le mie idee ma il film non ne è il manifesto"
Marco Bellocchio
Marco Bellocchio aveva a disposizione un mezzo formidabile per raccontare storie sullo sfondo dei moti popolari inerenti alla storia di Eluana Englaro; i secondi in pochi anni, a giudicare dall'effetto del post-lutto di massa dato dalla malattia e morte di Giovanni Paolo II. Bellocchio è un cineasta che non ha praticamente rivali in Italia per la capacità di girare, per la forza psicologica, per la rabbia che esprime.
"C'è ancora ma è cambiata, si addice alla trasformazione con mille incertezze e cadute."
Marco Bellocchio
Ecco, forse questa antica rabbia è addomesticata da certi testimoni del passato (su tutti, il personaggio di Fabrizio Falco) che attingono ai primi film del regista, fautori di una lucida follia (i cosiddetti "Matti da Slegare") che tutto sommato è cauta, persino sobria, rispetto al delirio collettivo della massa e alla perdita del proprio (proprio?) pensiero. Davanti a tutto questo, le ferite aperte (vedi "Buongiorno, notte") e i crolli della tradizione "eterna" sembrano l'unico alibi legittimo ad assicurare un minimo di buon senso e opposizione al sistema. Bellocchio sceglie la via più semplice e al tempo stesso la più rischiosa, contrastando una vicenda omologata tra le nostre mura di casa a un'opera di respiro quasi internazionale, come se volesse per la prima volta nella sua carriera auspicarsi un successo di pubblico in sala, e non solo in Italia.
La struttura del film, con le sue storie a incastro, non evita per questo forzature e cliché, ma è una via naturale per esibire uno sguardo distaccato e complesso su un tema che reclama attenzione e obiettività.
La collettività che assiste impotente o, purtroppo, compartecipe all'ennesima sceneggiata della politica italiana è un ritratto sorprendente di un'Italia affossata da criteri partigiani che esibiscono la duplice natura dell'individuo incapace di pensare con il proprio metro di giudizio. Ma l'affresco di Bellocchio rischia di apparire già distante dalle opinioni dello spettatore, almeno quando cerca di sdoganare parte della classe dirigente attraverso il beneficio del dubbio, riconoscibile nella crisi di coscienza del senatore Beffardi, interpretato da un eccellente Servillo, o nell'eccesso di indulgenza di un medico (Piergiorgio Bellocchio, figlio del regista) che tenta di salvare la vita di una tossicodipendente disperata e depressa (Maya Sansa).
Quest'ultimo episodio, proprio nella lunga conversazione finale, ostenta un rischioso luogo comune che non è immune purtroppo dal linguaggio e dalla dialettica tipica dei teleromanzi (la figura del medico samaritano, in particolare). La stessa figura del senatore, davanti alla malattia della moglie e alla sua disperata richiesta d'aiuto, risulta enfatizzata non tanto in termini cinematografici, ma di fronte alla generale avversione del popolo verso la classe politica italiana.
Di questo Bellocchio ne tiene conto, vero, soprattutto nella sequenza più antitetica e illuminante del film, in una sauna, quando lo psichiatra Roberto Herlitzka descrive il suo libero pensiero al senatore ("La televisione non li chiama, questo è il dramma") suscitando una spartita ilarità negli spettatori. Ed è un'immagine che riporta agli antichi filosofi greci, all'impero romano e peraltro a certi peplum storici come "Spartacus", ma anche a un certo tipo di iconografia monolitica presente in certi film di Sorrentino, vedi diverse analogie con "Il Divo".
In questo contesto, Bellocchio si abbandona suo malgrado all'inevitabile complesso della realtà, suggerendo, come fa Sorrentino nel suo film su Andreotti, l'impossibilità civile, sociale e culturale di un possibile cambiamento del Paese. In altri contesti, la realtà viene plasmata e contestualizzata a una storia che fa perno sul dolore di un'attrice di teatro (la Divina Madre di Isabelle Huppert) che trascura il figlio Federico (Brenno Placido) per aggrapparsi alla flebile speranza di vedere risvegliarsi dal coma la giovane figlia. Bellocchio abbandona i vecchi simboli mettendo insieme forza e fragilità di una donna che sembra interiorizzare tutti i contrasti della natura umana, davanti al dramma del sacrificio.
E' questo processo di "meccaniche divine" la parte migliore del film, davanti a cui la figura materna si costruisce un ipotetico mondo di spiritualità confortante (e in realtà disperata) leggendo Santa Teresa d'Avila e trasformando la sua dimora in un rituale tanto mistico-religioso quanto esorcistico. L'impasse è in realtà un tema caro al cinema dell'autore, che sostiene quanto follia e ragione possano essere complementari. Per le stesse ragioni il gesto di Federico suscita nella madre una sorta di privata speranza, quando si fonda sulla fine drammatica delle sue rinunce.
Sullo sfondo di un Paese sconsacrato alle ragioni, vere o presunte, della coscienza, tra politici che si dibattono in tv sulla possibilità che una malata terminale possa o meno partorire, le accuse di "omicidio di stato" e il fanatismo incontrollato degli adepti fuori dagli ospedali, il regista inserisce come unici volti laici il personaggio di Fabrizio Falco e, con minor tensione ideologica, quello di Federico.Si tratta di figure che rappresentano un po' il cinema dell'autore, ormai anch'esse addomesticate rispetto al radicalismo fortemente sedizioso dei vecchi tempi. Ed è anche questa impronta labile e quasi timorosa (e comunque appropriata per la complessità delle vicende) a rendere "Bella addormentata" un capolavoro mancato o comunque un film irrisolto.
La morte di Eluana Englaro, invece, stabilisce i confini dove l'Italietta morale può tornare alla rimozione ordinaria, o riflettere ancora una volta sul senso della vita e della morte, come in un tipico scenario carveriano.
Bellocchio ha in fondo cercato, in parte riuscendovi, di raccontare con uno sguardo distaccato e neutrale le contraddizioni e le scelte individuali tra libertà e dogma, e persuadendo lo spettatore che, a seconda delle angolazioni, sono tutte rispettabili. La scelta di Maria (Alba Rohrwacher), figlia del senatore Beffardi che a sua volta si rifiuta di firmare la legge, la scelta di una madre forse conscia dell'inutilità del suo martirio, la scelta di un medico di assistere tutta la notte una sua paziente, la non-scelta di una donna pronta a morire o salvarsi da una sopravvivenza illusoria, tutto nel segno di una collettività pronta a dividersi dal resto del mondo.
E infine, la richiesta di una donna, credente, la necessità di spegnersi, di sopravvivere comunque ai veti della propria educazione religiosa.
Non è necessario, però, sollevare sommosse pregiudiziali nei confronti di questo film, specialmente se riteniamo il diritto alla vita un prolungamento al di là di ogni suo esplicito bisogno, ma lasciarsi guidare dall'istinto. Un cineasta un po' troppo chiuso nel suo didattismo laico (vedi "L'ora di religione") può credere di "liberarsi". Noi non ne siamo convinti, ma quel vortice di alberi che svettano, imponenti, verso un cielo d'incognite, nel manifesto del film, sembra dirci che una risposta plausibile sia ancora lontana
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 14/09/2012 14.58.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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