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"La vita è ciò che ti capita mentre sei impegnato in altri progetti."
Con queste parole che fanno da eco ad un John Lennon previo accoppamento, si apre l'incipit di "Dead Man Down - Il sapore della vendetta", nuova prova del regista danese Niels Arden Oplev.
In stand-by dalla trasposizione del best-seller "Uomini che odiano le donne", disponendo di un budget di tutt'altro livello, alla chiamata di Hollywood Oplev risponde con un thriller dolceamaro, che dagli iniziali toni cupi via via si schiarisce nella luce del riscatto e della redenzione personale.
Attorniato da una fotografia verdastra, avvelenata come il suo animo, Victor è interpretato dall'accigliato Colin Farrell, con la perenne espressione dubbiosa di chi è in attesa di istruzioni (come fosse ancora appeso alla cornetta di "In linea con l'assassino").
Riemerso da un passato oscuro, il fu Laszlo Kerick si è introdotto sotto falsa identità nella gang che gli ha sterminato la famiglia, giurando di compiere "si, vendetta, tremenda vendetta!". Ma mentre è intento a portare avanti il machiavellico piano, seminando rebus ed indizi per condurre alla pazzia i compagni/nemici di banda, viene disturbato dalla vicina di casa guardona Beatrice (un'insolita Noomi Rapace, femminile e delicata). L'incontro cercato dalla ragazza, che mostra incisi sul volto i segni di una storia altrettanto triste, sarà l'ancora di salvezza per entrambi e l'occasione per rinascere.
Lo schema della "vendetta" ultimamente al cinema sembra di corsia privilegiata. Un sostantivo che i distributori italiani non esitano ad inserire random nella conversione di svariati titoli, approfittando magari del delirio collettivo esploso con "Django Unchained", "Drive" e ancor prima con "Kill Bill".
Ma ciò che distingue "Dead Man Down" dai suoi facsimili imitatori di cult-movie è che a rubare la scena alle spettacolari raffiche di colpi e sparatorie adrenaliniche tipiche del genere, esplose nei bassifondi lerci del ghetto latino come nei Grand Hotel e nella villa del Boss ricostruita in perfetto stile "Scarface", sia l'intimità fragile di due personaggi che hanno molto sofferto, muovendosi in costante bilico tra il ruolo di vittima e quello di carnefice.
Badando poco al bunker dei ricordi che sa di parecchio già visto, in particolare ci colpiscono alcuni punti del film: il momento della cena al ristorante, con i goffi tentativi di Victor e Beatrice di camuffare la verità sulla rabbia che covano, sull'accecata sete di giustizia, lasciando però trapelare quanto desiderino disperatamente ricominciare con qualcuno; le persecuzioni che Beatrice subisce quotidianamente dai bambini del quartiere, culminate sul vestito chiaro depositario di sogni e aspettative, pagina bianca da voltare che ancora una volta si macchia di sangue; il legame profondo e protettivo che la stessa ha con la madre (una splendida e sempreverde Isabelle Huppert), parzialmente sorda, con cui condivide il problema della disabilità.
Dettagli apparentemente insignificanti, ma da cui s'intravede lo zampino di una sensibilità europea, infiltrata anche nella miscellanea di un cast di provenienza francese, ispano-svedese, irlandese ed inglese. Un'influenza che fortunatamente si ripercuote sulla retorica a stelle e strisce, riuscendo a smorzarne la tradizionale stucchevolezza.
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Recensione a cura di Paola Gianderico - aggiornata al 13/03/2013 17.55.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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