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Ho viaggiato tra molti popoli e su molti mari
e giungo qui, fratello, per donarti queste misere cose
in offerta come ultimo dono di morte
e per parlare invano alla muta cenere,
poiché la sorte mi ha strappato proprio te,
oh povero fratello toltomi ingiustamente,
ora tuttavia ricevi queste offerte, come triste dono
portate secondo il culto degli antenati,
grondanti di molto pianto fraterno,
e per sempre, fratello, addio.
(Carme 101-Catullo)
Presentato alla 61a edizione della Mostra del Cinema di Venezia, "Dead Man's Shoes" è uno di quei film che, seppur acclamato da critica e pubblico durante il festival, non ha avuto alcuna distribuzione a livello nazionale, mentre in Gran Bretagna è divenuto un vero e proprio cult, consacrando definitivamente il regista inglese Shane Meadows.
"Dead Man's Shoes" è l'ultimo film della trilogia riguardante le Midlands (regione centrale della Gran Bretagna corrispondente al Regno di Mercia durante il periodo medioevale), ed è preceduto da "A Room for Romeo Brass", film d'esordio dello stupefacente Paddy Considine, e dall'anonimo "Once Upon a Time in the Midlands".
Ambientato nella piccola cittadina di Matlock, "Dead Man's Shoes" racconta il ritorno, dopo otto anni, di Richard (Paddy Considine) ed Anthony (Tony Kebbell) nella propria città natale. Qui Richard, ex militare, inizia la propria sanguinosa vendetta contro tutti coloro che durante la sua assenza torturarono e seviziarono il piccolo Anthony, reo di essere soggetto ad un lieve ritardo mentale.
Il film di Meadows è un vero pugno nello stomaco.
Il regista inglese riesce a toccare le corde della sensibilità dello spettatore non in modo lieve e delicato, ma con la foga e la violenza che contraddistinguono questa pellicola: una vendetta servita fredda, lenta, un conto alla rovescia che porta ciascuno degli aguzzini a rivivere le sevizie fatte sul povero Anthony prima di perire per mano di Richard.
Quest'ultimo è dominato da un odio viscerale, ma anche da un dolore che non gli dà pace; il rimorso per essersi vergognato di Anthony in passato, di averlo lasciato solo in balia delle "bestie" e soprattutto il non avergli mai dimostrato il suo amore fraterno, lo dilaniano. Non un attimo di sosta, non un momento di quiete. Il risentimento e l'odio trasformano Richard in un angelo vendicatore, una bestia ("Now, I'm the beast") senza scrupoli che non si ferma davanti a nulla; un peregrinare senza sosta alla ricerca di un momento, un solo istante di pace.
Quiete che Richard spera di trovare con lo sterminio dei torturatori.
Egli sfoga la propria rabbia cercando illusoriamente di liberarsi dal cancro del dolore che diviene in realtà sempre più grande, ogni qual volta aggiunge un tassello alla propria vendetta. Nulla. La sofferenza non cessa e da qui l'unica via di salvezza: la morte sul sito dove è andato in scena l'ultimo atto delle sofferenze del fratello, luogo simbolo del suo odio e del suo rimpianto, cuore delle proprie sofferenze che lo dilaniano, più del coltello che si insinua tra le proprie membra conducendolo all'insperata quiete.
Shane Meadows punta il dito contro l'indifferenza sociale verso eventi di tale portata prendendo d'esempio la squallida società delle periferie inglesi (che presenta non poche analogie con quella di Edimburgo analizzata da Boyle nel suo "Trainspotting") nella quale è ormai radicato il male del crimine e la piaga della droga. Tutto è lecito, tutto è permesso, perfino torturare un disabile. Nessuno interviene, ciascuno pensa a se stesso e al modo di salvaguardare i propri cari dalla violenza che dilaga lungo le strade. Il resto non ha importanza perché "siamo nel culo del mondo".
"Dead Man's Shoes" è l'esempio della bontà del cinema indipendente. Un budget irrisorio messo a disposizione da Mark Herbert della WarpFilm dopo aver visionato il talento di Shane Meadows in alcuni suoi corti; un'equipe di sole dodici persone si sono impegnate alacremente per otto settimane riducendo il più possibile i tempi di lavoro, diminuendo così il denaro necessario per finanziare l'opera. Ma a questa penuria di mezzi ha sopperito il talento e la voglia di sviluppare un prodotto di qualità.
La regia di Meadows è ottima, sempre al centro dell'azione e costantemente in grado di riprendere l'umanità evidente negli occhi di Richard/Considine. In grado di passare velocemente dalle quieti e commoventi inquadrature delle Midlands alla dura descrizione delle abominevoli azioni del "branco".
Le vicende riprese da Meadows sono supportate dalla straordinaria fotografia di Daniel Cohen (proveniente dalle scene pubblicitarie e musicali) che fa uno splendido lavoro. L'intensità cromatica delle verdi colline delle Midlands, stride con l'animo buio del protagonista continuamente immerso nel grigiore plumbeo del proprio animo e della propria sofferenza.
Paddy Considine esprime il proprio odio non con molte parole, ma con la sua straordinaria mimica. Basta uno sguardo, ben colto dal regista, per capire ciò che pensa, ciò che vorrebbe fare, ciò che prova.
Considine è senza dubbio la stella del cast, che nel complesso si comporta complessivamente bene nonostante il suo compito sia più arduo di quanto si possa pensare: il film è infatti basato su sole 60 pagine di sceneggiatura. Ciò ha portato il cast ad improvvisare in molte circostanze donando una nota di realismo alla pellicola.
Ottimo il montaggio, curato da Cris Wyatt ("Prospero's Book" di Greenaway) e Celia Haining ("The Full Monthy") in grado di arricchire la trama con una serie di flashback (in un bianco/nero sporco, trattanti le sevizie subite da Anthony), mantenendola comunque lineare e facilmente comprensibile.
Un film straordinario, che emoziona e coinvolg; un vero piccolissimo gioiello, dimenticato e sconosciuto per colpa delle durissime leggi del marketing, assolutamente da recuperare e riscoprire, sebbene sia molto difficile da reperire.
"God will forgive them. will forgive them and allowed them into heaven. I can't live with that."
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Recensione a cura di matteo200486 - aggiornata al 30/05/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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