Recensione dimensions of dialogue regia di Jan Svankmajer Cecoslovacchia 1982
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Recensione dimensions of dialogue (1982)

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locandina del film DIMENSIONS OF DIALOGUE

Immagine tratta dal film DIMENSIONS OF DIALOGUE

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Immagine tratta dal film DIMENSIONS OF DIALOGUE

Immagine tratta dal film DIMENSIONS OF DIALOGUE
 

Assorto nel nulla di un universo incomprensibile che poco lo contempla, l'uomo intende stabilire un dialogo attraverso le cose che lo circondano, con i propri simili, con se medesimo, in un confronto con il tempo e con lo spazio entro i quali egli resta contenuto.
Si distrae dal silenzio. Reclama un significato e una logica a ciò che sente e vede, in quel che tocca o prova e dunque esiste.

E così: elemento diviene parola; oggetto diviene parola; gesto diviene parola; sentimento diviene parola.

Ma più in là che procede, il discorso, via via s'astrae, e s'assuefa nuovamente al nulla, e si spoglia del tutto, finché non si ritrova implicato in un sistema da esso stesso costituito, che scopre inesplicabile quanto l'universo da cui fuggiva - e in un colloquio che ha iniziato e di cui non trova più il bandolo.
E giunge all'impasse del comico, del paradosso, del contraddittorio; diventando in tal modo non più che lo zimbello del nulla.

L'incompatibilità, l'alienazione, la spersonalizzazione e oggettivazione dell'individuo e delle masse, l'incapacità o impossibilità di relazionarsi - tutti temi molto cari al Novecento e oggi quanto mai attuali - trovano in "Dimensions of dialogue" di Jan Švankmajer una delle loro espressioni più efficaci e compiute, un perfetto riassunto che condensa, in tre brevi episodi, molto di quel disagio e di quel senso di svuotamento che questi stessi aspetti hanno aggiunto alla coscienza dell'uomo moderno.

Le metafore alle quali assistiamo, seppure profonde, sono tutte facilmente leggibili.
Finalmente, veniamo a conoscenza di un artista che non desidera essere frainteso e che ha ben chiaro ciò che vuole rappresentare: l'incomunicabilità - dicevamo - l'ironia corrosiva della contraddizione che viene a crearsi. Švankmajer esplora, mediante lo sviluppo delle creazioni plastiche presenti nei tre brani, varie possibilità (o impossibilità) di dialogo tra gli individui, approdando ad una demistificazione irrimediabile dello stesso.
A tal proposito la tecnica di animazione dello stop-motion, sperimentata durante tutta la produzione del regista ceco, è qui perfettamente funzionale: così realizzate le animazioni risultano poco fluide, procedono a scatti, in maniera meccanica, favorendo in questo modo la sensazione di disarticolazione del linguaggio, e dando il senso di un insieme non contiguo ma intaccato e interrotto in diversi punti.

Nel primo dei tre episodi, sicuramente il meno esplicito e dallo stile differente, dopo il vocio confuso che fa da commento ai titoli di testa, c'è già completamente esposto il concetto di società per Švankmajer: alcuni uomini dai volti arcimboldiani, forse guerrieri, ognuno dei quali è composto da diversi elementi (cibi, utensili, strumenti, oggetti a sintetizzare i vari idiomi e i propri mestieri) si divorano, si combinano, si sminuzzano, s'elaborano quasi come i dati di un calcolatore, si vomitano l'un l'altro, dando il via ad una catena umana che, setaccio dopo setaccio, conflitto dopo conflitto, giunge all'omologazione seriale di un uomo completamente svuotato e all'impasse.
La civiltà materialista è stilizzata mediante l'uso dei materiali. L'individuo in essa è oggettivato e reso inerte, quand'anche si pone aggressivamente. La parola, sempre interpretabile, sempre strumentalizzabile e attanagliata tra silenzio e silenzio, è più ancora che legata all'oggetto a cui s'applica: diviene l'oggetto essa stessa, l'insieme caotico delle cose, dapprima catalogate e poi rimischiate, ed esse a loro volta non sono più che molecole e cellule.

E dove il discorso si fa confusione, rumore, ovunque, monotono, ripetitivo, sistematico, suono di masticazione e scomponimento; più che a un processo evolutivo, ci pare di assistere ad un deterioramento, dunque involutivo, e più che ad una moltiplicazione ad una divisione: la tridimensionalità degli oggetti dà origine ad una bidimensionalità delle figure umane simile a quella dei graffiti primitivi; la loro abbondanza, a poche forme immerse in scenari spogli e legnosi.
La deiezione delle parole-oggetto non produce infine altro che accumuli di detriti, che genie impersonali, che eserciti inermi, che sequele di sillabe atone.

Sicuramente, già in questo primo periodo è patente come l'allegoria dell'autore faccia riferimento all'incomunicabilità: i dialoghi non sono costruttivi ma distruttivi, tendono a contraddirsi e a non tollerarsi, sino ad annientarsi a favore del silenzio.

Ma in questa prospettiva troviamo più intenso il secondo episodio: la scena è più essenziale e disadorna - ove una forte consistenza viene a sostituirsi alla bidimensionalità del brano iniziale - e ci mostra intanto come il surrealismo di Švankmajer non tendi a fuggire la realtà, ed anzi come miri a centrarla.
Ci troviamo nel luogo intimo, casalingo; due statue di plastilina, raffiguranti un uomo e una donna, due amanti, nudi, inespressivi, glabri, siedono nel punto simbolo del non-dialogo: a tavola, immobili in una rigida calma.
L'atto amoroso è annunciato dal formarsi del sorriso nell'uomo e dal calare delle palpebre della donna: si risolve nell'impasto dei corpi, nel tremito della mistura omogenea che fa riferimento alla passione, e accentuato dalla musica di sottofondo degli archi ora più drastica, nell'affiorare momentaneo dal composto magmatico di porzione corporee.
Ma al termine dell'amplesso, dopo la ricomposizione delle due figure, sopra il tavolo è rimasto un residuo, quale frutto dell'atto amoroso, un pezzo di plastilina, minuto e informe, evidentemente un feto o più semplicemente l'idea di un figlio.
Il piccolo impasto sfiora il ventre della donna, viene respinto, rifiutato dall'una e dall'altra parte, è causa d'un repentino cambio d'espressioni, d'un litigio furioso che porta i due amanti ad accanirsi a vicenda sino a disfarsi.

Metafora chiara, sull'incomunicabilità della coppia, e molto bella.

Seppure riconosciamo probabilmente nell'ultimo episodio l'apice espressivo dell'intera pellicola: qui ritroviamo, perfettamente condensate, l'ambientazione povera del secondo movimento e la comicità paradossale del primo.
Questa volta le due statue di plastilina sono di due uomini più anziani, mutilati di tutto il corpo, due teste soltanto, poste ironicamente e secondo la logica surrealista sopra il tavolo. Ridicole come maschere burlesche e dagli occhi che si sbarrano, le due teste si fissano - vigili - si sorvegliano: sembrano fronteggiarsi e attendere l'una la mossa dell'altra, come durante una partita a scacchi.

Inizia il terzo dialogo. Sempre comicamente, dalle loro bocche escono sequenze di oggetti, dapprima compatibili e collaborando, che interagiscono tra loro in maniera esatta. Poi le due teste, ruotando meccanicamente, e attente a non perdersi di vista, cominciano a scambiarsi di posizione: hanno dunque luogo le repliche infelici, le polemiche illogiche, le antinomie, le complicazioni linguistiche, i bug, gli intoppi.
Similmente a come accadeva nel primo episodio, sono sperimentate tutte le varie combinazioni possibili, e il risultato è che le parole-oggetti non collaborano più, anzi si osteggiano, finiscono col danneggiarsi, e il caos ristabilisce il suo dominio, intanto che i due volti sono andati crepandosi sino a che, affranti, li vediamo in ultimo ansimare disfatti.

Un sipario sonoro, di musiche stranianti, cala sull'ultimo atto di questo originale teatrino dell'assurdo, dallo spettacolo affascinante, a tratti disturbante, anche divertente. Ma l'incomunicabilità paradossale che qui si denunciava non era soltanto quella d'una società meccanizzata e alienante: era insita nella rappresentazione, era assieme quella propria dell'autore, confessata.

Švankmajer ha partecipato in prima persona al dramma - l'abbiamo avvertito nella densità del suo tratto, nella grande ruvidezza e corposità delle sue creazioni - e il dibattito disaminato era per primo il suo, interiore, quello di un artista, più ancora sofferto e trovato altrettanto inadeguato.
Del resto, non è il gergo artistico esso stesso un'obiezione contraddittoria? All'espressione impersonale, alla parola comune, alla frase logica, al colloquio formale, alla risposta eloquente - e intanto rifiuto del silenzio e del nulla - comicamente, senza via di uscita: critica e autocritica di un linguaggio esaurito, d'uno di centomila e di nessuno.

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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 14/05/2010

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